When the stars make you drool just like a pasta fazool

I momenti salienti delle mie vacanze con l’Orso sono sempre connotati da una certa aura di tragicità eschilea nel momento in cui vengono vissuti, salvo poi diventare affettuosi ricordi ad appena poche ore dall’accaduto (a volte anche meno).

Ecco la top three del nostro ultimo viaggio, che, per amore di verità, è stato particolarmente affettuoso e rilassato, nella nostra personalissima media. Per citare il mio saggio compagno, “Ehi! È stato il primo viaggio in cui non hai mai pianto!”.

  1. L’importante è partire col piede giusto. Alle 4 del mattino sotto una pioggia torrenziale. Arrivare davanti al parcheggio prenotato e già pagato, e rendersi conto che la scritta “aperto 24 ore su 24” mente spudoratamente. Trovarsi fermi sotto la pioggia davanti al cancello, in compagnia dei coniugi Pautasso. Lì io, che quando viaggio divento la donna più ansiosa del pianeta terra e se potessi dormirei direttamente in aeroporto la sera prima, ho avuto un cedimento strutturale che si è tradotto in un monologo di anatemi e bestemmie, non propriamente dirette verso l’Orso, ma, sotto sotto, anche, perché il parcheggio l’aveva scelto e prenotato lui. Abbiamo fatto il nostro ingresso a Caselle lividi, umidi e malumoratissimi. In coda al bar però abbiamo limonato, quindi tutto ok.
  2. Ne uccide più il selfie che la spada. Io garrula nel vento sotto la Statua della Libertà, circondata da gente in posa, il mio gene tacky che si risveglia, e sì: vorrei essere una di loro, delle portoricane che fanno finta di raddrizzare la torre di Pisa, il mio sogno proibito è un selfie stick. L’Orso invece è del partito del fotografo intimista, quelli che nelle foto le persone le rovinano, solo muri e crepe nel terreno, se c’è una presenza umana almeno che sia uno sconosciuto ignaro. Il suo unico cedimento sentimentale sono i gabbiani, che ama, per motivi a me ignoti (a questo proposito citerei un litigio vintage del 2009 a Brighton, quando per fotografare i gabbiani è salito con le infradito ai piedi sulle impalcature al decimo piano: la prima vacanza insieme e tuttora uno dei momenti più alti della nostra relazione litigatoria). Il selfie, per l’Orso, è la forma più bassa dell’espressione umana. Io lo so, eh. Ma quando vengo posseduta dal demone Alpitour, ci provo sempre. “Dai, facciamoci un selfie con la Statua della Libertà!“. Mi ha guardata con disprezzo. “Fattelo tu” (e infatti poi l’ho fatto). Io mi sono sentita come Mimì Metallugico ferito nell’onore. L’Eleonora Duse che mi alberga dentro si è inserita a gamba tesa nella discussione, e da lì è stato un attimo degenerare: sei uno snob, sei una rompicoglioni, sei un poser, sei sempre la solita esagerata, perché fai così, no perché tu fai così, che a guardarci da fuori (e a capire la lingua) forse sembravamo uno sketch sperimentale di Broadway o più banalmente due imbecilli che avevano appena fatto 6.379,43 km per litigare per un selfie. Selfie che in teoria doveva sancire l’amore coniugale e la gioia di stare insieme in luoghi esotici, peraltro. Il tutto è culminato nella frase “Ecco! È già finito l’idillio!“, detta dall’Orso con sopracciglio sconsolato e sguardo perso nel vuoto di Two Dots. L’Orso è bravissimo a litigare giocando ai giochi scemi sul cellulare, è il suo personalissimo modo per mettere le distanze con quanto sta succedendo, come a dire: sì, ok, io c’ero, ma in realtà mi stavo impegnando a battere un record. Comunque mezz’ora dopo stavamo già limonando nel negozio dei souvenir.
  3. Si può discutere solo sulle cose veramente importanti, tipo dove andare a cena. Sottotitolo: è tutta colpa di Yelp! Location: il Rockfeller Center, che, con la sua maestosa sontuosità, si presta particolarmente ad essere teatro di drammi di matrice culinaria. Io volevo mangiare mac and cheese (lo so, sono una donna dai gusti raffinati). Ho espresso questa preferenza rispondendo a precisa domanda (cito testualmente: che cosa vuoi mangiare per cena?), ma il primo risultato della ricerca sul motore della discordia è stato un locale che non c’entrava niente, una roba tipo i Dos Toros Hermanos. Al che l’Orso si è illuminato: andiamo a mangiare messicano? L’inizio della fine. Ecco, allora se devi sempre decidere tu che cazzo mi chiedi. Ma no, io te l’ho chiesto perché possiamo andare dove vuoi tu. Ma io ti ho detto mac and cheese, mica messicano. Bom, e allora andiamo a cercare mac and cheese. E allora non chiedermi se voglio mangiare messicano se ti ho già risposto. Ma sì, era una proposta. E allora facciamo come vuoi tu. No, adesso facciamo come vuoi tu. Allora cerca un posto. Non ci sono posti. Certo, siamo a New York e ci sono solo ristoranti messicani. No, guarda anche tu! (Questa era chiaramente una finta. L’Orso non mi lascia in mano il suo cellulare durante una ricerca manco morto, forse solo se gli mozzassero i pollici e gli indici e dovessi googlare un chirurgo che glieli riattacchi). No ma figurati guarda tu. No, guarda tu. (Sottotesto: anche se chiaramente non sei capace). Ad libitum sfumando. Credo che un gruppo di coreani in vacanza ci abbia ripreso e adesso in Oriente siamo tipo delle star, come George e Mildred ma più mediterranei. Abbiamo danzato tutto il minuetto che va dalla lieve irritazione fino al divorzio per colpa, tutte le sfumature del vaffanculo ci si sono schierate davanti agli occhi come un catalogo Pantone. Abbiamo recuperato in corner quando abbiamo capito che il rischio era di incazzarci così tanto da rinunciare alla cena per mero puntiglio. Abbiamo ripiegato su un Hamburger Heaven a caso, la panza ha delle ragioni che la ragione non conosce.

E niente, questi siamo noi. Siamo proprio noi. Per quello che ne so io, questo è l’amore vero. Quello che ti fa incazzare e poi ti fa anche ridere e poi ti fa di nuovo incazzare e poi lo scrivi sul blog e l’Orso dice dai però, non puoi raccontare i cazzi nostri a tutti. Perché non metti una di quelle bello foto che ho fatto io, in cui si vede mezzo comignolo e uno scampolo di gabbiano?

[Sul raccontare l’amore poi c’è questo corso qua che tengo il 13 maggio da Zandegù. Lì si fa sul serio, dal primo sguardo verso l’infinito e oltre, mica solo le discussioni sceme in terra straniera].

Effetti collaterali di tanta bellezza.

Siamo stati a New York, io e l’Orso.

Lo dico nel caso qualcuno non fosse stato tediato abbastanza dai miei ovvi post su Instagram e Facebook, con indizi appena accennati sullo sfondo, tipo la Statua della Libertà.

Era la seconda volta, e, pur non avendo avuto illuminazioni esistenziali come la prima volta che ci sono stata, quella città mi smuove sempre cose. O forse, più in generale, viaggiare mi crea sempre smottamenti, più de core che de panza.

La sensazione primaria è che ci siano posti al mondo che esigono da te più cose. Che ti chiedono di essere più e meglio, e in cambio ti danno energia purissima e bellezza. New York lo fa forse all’ennesima potenza. Non a caso, in un pomeriggio di sole a Washington Square, mentre l’Orso sgattava vinili in un negozio, mi sono seduta su una panchina a leggere Time Out e mi sono imbattuta in una frase di Scarlett Johansson che diceva esattamente questo:

The city is unforgiving. It’s beautiful and tragic and, you know, available and distant, all in one afternoon.

Nel frattempo, sul blog di Zandegù usciva questo post, che si incastrava bene in quello che stavo pensando. È un post bellissimo e non riesco a smettere di pensarci, scritto con chiarezza magistrale, e la dose giusta di serietà e ironia (ma ci stupisce che Marianna sia così brava? NO).
E poi, in un giorno di pioggia Andrea e Giuliano, ho comprato in una libreria pazzesca (lo Strand Bookstore) un libro di Alida Nugent che si chiama You don’t have to like me, e raccoglie una serie di scritti  buffi e interessanti sul femminismo, sulla crescita, sulla percezione di sé, sul coraggio di dire le cose.

I fear that I’m ordinary, just like everyone, ha cantato Billy Corgan infinite volte nelle mie orecchie dal 1995, in una delle canzoni che amo di più al mondo, ed è un po’ questo che temiamo in tanti, no? Di essere qualunqui, di non avere stelle che ci esplodono nel petto e nulla di magico per il quale essere ricordati per sempre. E forse nell’era dei social è ancora più sentito, farsi vedere, farsi apprezzare, spiccare fra la massa.
Per ottenere cose che a volte sono davvero necessarie alla nostra sussistenza, ma altre volte servono solo a coccolarci l’ego. E non sto condannando nessuno, dio solo sa se non lo faccio pure io (però spero sempre che intorno a me ci sia qualcuno di abbastanza pietoso che, se vede che esagero, mi dà una botta in testa e mi toglie la connessione).

Ho pensato alla grande città e alle grandi storie di successo: ho pensato a Lena Dunham – perché quest’ultima serie di Girls mi sta proprio piacendo da pazzi, e perché la stimo profondamente – e mi sono detta che c’è un motivo se io non sono mai stata la Lena Dunham di Parella, ed è che lei è più brava di me, si è fatta il culo, ha usato al massimo le sue possibilità e ha fatto quello che voleva. E come lei migliaia di altre persone che sono i Michelangelo o le Frida Khalo di questo secolo e fanno cose pazzesche, che hai voglia a dire ecco loro sì e io no.

Ho pensato che nel mio piccolo orticello urbano, la sola risposta che ho – oltre al grazie al cazzo che per me è un bel passe-partout ogni volta che faccio pensieri ovvi – è fare le cose per me. Non per quello che diranno o vedranno gli altri. Nel senso: il punto non è il dopo. Non è il successo o l’apprezzamento o i fischi e le uova marce. Il punto è come sto mentre le faccio, quanto mi piace farle, quanto sono soddisfatta di quello che ho prodotto indipendentemente dalle reazioni.

E ho pensato al provincialismo, che è quella roba che ti sta attaccata addosso a Torino e a New York e a Castiglione Falletto.
Il provincialismo è pensare che chi ha ottenuto un successo non vale più di te, ma ha solo avuto più culo, più opportunità, le spalle più coperte o whatever. A volte magari succede, ma a volte, semplicemente, è stato più bravo. Più focalizzato. Ha fatto salti nel vuoto che tu, mmmh, anche no. E mentre io tenevo il mio culo ben al riparo dall’abisso, qualcun altro saltava, e scommetteva sul fatto di avere le ali.
Ma il provincialismo è anche pensare che tu ormai quel salto lì non lo fai più. Perché le cose non si cambiano, signora mia. È molto triste ma anche molto rassicurante dirci che le scelte fatte ormai sono scolpite nel granito dei secoli.

Quello che ho pensato mentre smaltivo pollo fritto per le strade di New York, è che non ho il minimo potere sulle decisioni e sulle reazioni degli altri. Sul modo in cui mi vedranno, su quello che diranno di me quando non ci sono, posto che qualcuno abbia davvero il tempo e la voglia di dire qualcosa e pensare qualcosa di me e di quello che faccio – perché uno dei capisaldi della mia intera esistenza è proprio che alla gente, di noi, gliene fotte infinitamente meno di quello che crediamo.

Ho il potere, però, di sapere quello che voglio fare, e come lo voglio fare. E di farlo. Come se nessuno vedesse, anche se poi, inevitabilmente, qualcuno vedrà.
Di far sporgere un po’ le chiappe sull’abisso, giusto per vedere se morde.

[Per le inevitabili considerazioni di costume e i maltrattamenti verbali all’Orso in trasferta, prevedo altri post, magari un po’ meno supercazzola di questo qua].

Quella volta con Modigliani a New York

Il 2012 è stato un anno di merda. Non so so era colpa dei Maya o della famosa ruota che gira e tu un po’ stai su e un po’ stai giù, io quell’anno stavo definitivamente giù, tenevo insieme i pezzi con lo scotch – quello adesivo, anche se forse quello alcolico avrebbe aiutato meglio – e continuavano a staccarsi, non riuscivo mai ad andare avanti perché ogni metro dovevo tornare indietro e recuperare qualcosa che s’era perso.

Maledicevo gli dèi e gli uomini con cadenza impressionante, un rosario di bestemmie, una sindrome di Tourette in piena, starmi vicino era l’Inferno senza navigatore, infatti chi mi amava andava a vista e forse a Lexotan, col famoso senno di poi era da dargli una medaglia, io gli davo merda di continuo, che bella persona, davvero.

Quell’anno lì l’Orso mi ha presa e mi ha portata a New York, grazie al contributo economico delle famiglie, ha ignorato le mie giaculatorie sulla povertà e sul disfacimento del sistema, sul tasso Euribor e sulla viltà di Equitalia, sul concetto di hybris e sulla saggezza dei francescani. Mi ha presa e caricata su un aereo con una valigia imprestata e una regalata e mi ha detto, si va.

Potrei dilungarmi ore su cos’è New York se non l’hai mai vista, se la cammini come fosse un film, se la guardi con occhi sgranati e dietro ad ogni edificio ti stupisci che ci siano davvero muri e non quinte di cartone, tutto il mondo passa da New York e ci lascia un’impronta, c’è qualcosa per tutti, a New York, non c’è scampo. Non puoi restare scettico, a New York. È l’America quella del modo di dire “Ha trovato l’America”, per cui hai trovato tutto, e lì, in effetti, trovi anche quello che non sapevi di stare cercando, tipo me.

Siamo andati al Moma, pieni di oooh, e aaaaah, e meraviglia negli occhi, sentendo l’anima che si ristorava in un corpo pieno di bacon e formaggio fuso, riconoscendo quadri per averli visti sulle copertine dei libri – lì c’è Teresa Batista stanca di guerra nell’edizione degli Struzzi Einaudi, guarda! E cose viste talmente tante volte in altri contesti che dal vero sembravano finte, ma più belle – ovviamente – non so come spiegarlo, a me l’arte fa questo effetto, che mi senti ignorantissima guardandola e al tempo stesso senza confini, io di arte so poco o niente ma so questo, che mi fa sentire come se mi dilatassi di spazi infiniti per accoglierla, anche se non mi piace razionalmente quella specifica opera, mi viene un brivido e penso, toh, questa è arte, con buona pace di Giulio Carlo Argan, sul quale peraltro ho diligentemente studiato – ma forse non abbastanza.

E così è successo che mi incamminavo verso le Ninfee, che hanno questa cosa strana che tu le guardi da vicino e sei scettica, poi ti allontani di due metri e capisci il perché di tutto quel casino nella sala delle Ninfee, il perché della gente seduta sulla panchette di legno con la faccia da uno che è sulle rive della Loira a fare un pic nic. Dico Loira per dire un fiume francese, sia chiaro, di geografia ne so meno che di arte, e tra l’altro credo che le ninfee manco stiano nei fiumi, ma negli stagni, è che di botanica e di stagni francesi ne so sempre meno in un quantitativo che si avvicina allo zero assoluto, quindi facciamo finta di niente e andiamo avanti.

Andavo verso le Ninfee con quel poco di fretta che ti si attacca addosso quando sai che ti stai avvicinando al pezzo forte, ma sai anche che il pezzo forte non scappa e quindi continui a guardarti introno, per non perderti cose di cui poi ti potresti pentire. Cerchi di darti un andi anche di persona che nei musei sa comportarsi, nonostante poi vada in delirio in un piano pieno di jeans scontati del 50% da 21st Century, per dire. Chi ti vede in quel momento al Moma mica lo sa.

Lì ho incontrato le donne col collo lungo di Amedeo Modigliani, che non mi ha mai fatta impazzire, di cui ho sempre pensato, bravo eh, però boh. Non è tanto il mio.

Schermata 01-2457402 alle 13.19.11

Pic by Aleroundyou  (e sì, proprio di quel quadro lì).

E mentre guardavo questa donna col collo lungo con un po’ di noia e aspettativa per le Ninfee, ho pensato, come dal nulla, certo che alla fine la libreria la posso anche chiudere, e non succede mica niente. Non muore nessuno. Soprattutto non muoio io, né le persone che ho di fianco, che comunque farle stare peggio di così sarebbe ardua perfino per me. Il mondo è grande, nella vita c’è spazio per essere tante cose diverse, qui a New York nessuno sa niente né di me né di Librarsi, e anche se sapesse è probabile che non gliene importerebbe una beata sega. Anche basta. E dopo qualcosa farò, ci sarà ben un dopo. Le possibilità, i modi di vivere, sono infiniti. Mica ce n’è uno solo giusto per il semplice fatto che un giorno l’hai scelto. E i soldi? I soldi vanno e vengono, più vanno che vengono, diciamo, ma i soldi sono già un problema. Vedremo come fare. Il punto è avere un senso, e questa carcassa che mi continuo a portare dietro un senso non ce l’ha più.

Ho pensato tutte queste cose e non le ho dette a nessuno, se non molto tempo dopo. E sarebbe bello poter raccontare che ho ripreso l’aereo per Torino a fine vacanza, e ho iniziato a mettere a posto le cose per chiudere, e invece no, l’ho trascinata ancora per più di un anno con un corollario di patè d’animo e rotture di balle esiziali per tutta la compagnia dell’anello, perché essere furba, da queste parti, è una dote che dobbiamo ancora sviluppare.

Però lì ho capito due cose. Che viaggiare, cambiare prospettiva, è importante sul serio, non per modo di dire. E che lo scopo dell’arte, forse, è proprio quello di aprire i confini nei quali sei chiusa. Anche quando è un’arte che di fondo non ti entusiasma granché. Con tutto il rispetto, Amedeo, abbi pazienza, eh.

(Questo post l’ho scritto perché Enrica ha sentito un pezzo di questa storia e mi ha detto, ma scrivici un post. E io l’ho fatto. La terza cosa che ho imparato nella vita, è che quando Enrica ti suggerisce una cosa, è meglio farla. Grazie, Frau Krivellen).