do/don’t

Non parlare di politica.

Non scrivere commenti. Non leggere le ondate di follia dei commentatori dei post altrui.

Non guardare, non sentire.

Non parlare.

Morditi le dita, le mani tutte, gli avambracci fino al gomito, le orecchie – sarà mai possibile mordersi le orecchie – e gli occhi – quando ti sembra di essere giunta al limite massimo di idiozie che puoi sopportare? L’esasperazione che vince la fisica.

Incappare in due frasi  – entrambe attribuite a Martin Luther King.

Una dice:

La Storia dovrà registrare che in questo periodo di transizione sociale non ci fu solo lo stridente clamore delle persone cattive, ma il silenzio spaventoso delle persone buone.

Ed è per questo che a fine giornata mi ritrovo seduta a tavola con l’Orso, e ci diciamo che chi ci fa paura (l’Orso, per essere precisi, dice schifo) in fondo è il nostro vicino di casa – no, non il signore squinternato che effettivamente abita al primo piano, ma l’Uomo – la Donna – Qualunque.

Che non si vergogna più delle sue meschinità e delle sue miserie, anzi, ne ha fatto stendardo. Che ha pronto il registro delle colpe altrui, per affogare nel silenzio le sue responsabilità.

Che vuole vedere al comando gente uguale, a lui, perdio!

Perché è sicuro che comunque farebbe meglio – lui, e per interposta persona qualcuno che gli somiglia.

Ma io non voglio qualcuno che mi somigli, a decidere le cose grandi. Voglio qualcuno che sia meglio di me. Che abbia studiato di più, e cose che io non so, e che abbia un cervello migliore, confini più ampi, una statura diversa.

E quando con sconforto mi dico, non c’è, mi rendo conto che questo deserto è il prodotto perfetto di anni passati ad abbassare l’asticella, a rassegnarci al meno peggio, all’appellarci all’ideale, tana libera tutti in nome di una bandiera tramortita e offesa dalla cecità e dall’inettitudine.

[E chi l’ignoranza l’ha coltivata, chi ha fischiettato distogliendo gli occhi da disparità e ingiustizie, chi non ha mosso un dito per la battaglie civili, che non c’era e se c’era dormiva: manco quelli si vergognano. Dev’essere un virus].

Non parlare di politica, non rispondere ai commenti, taci chiudi gli occhi, fai i conti con te stessa e con quello che puoi al chiuso della tua cabina elettorale, dopo esci, fatti una pera di Negroni e spera di svegliarti con un’amnesia devastante che abbia inghiottito tutto quello che è stato fino ad ora.

Ma a me fa paura questo clima, leggere certe frasi che secondo me dovrebbero causarti imbarazzo solo a pensarle, figurati a scriverle pubblicamente.

Mi fa paura la gente che non sa le regole della grammatica, né quelle del vivere civile, pur avendo avuto tutti gli strumenti e le occasioni per impararle.

Mi fa paura chi si pasce dell’odio pensando di gettarlo contro indiscriminati e lontani “altri” – manco fossimo sull’isola deserta di Lost – e vorrei chiedere scusa, al signore di mezza età pakistano con lo zainetto che va a mettere i volantini nelle buche sotto la pioggia, al mio fruttivendolo, alle badanti delle nostre nonne, all’indiano che mi tritura i marroni per vendermi una rosa, alle nigeriane che si ghiacciano il culo sulla statale in mezzo al bel viavai di maiali, alla mia sartina cinese, vorrei chiedere scusa, perché di tanti bei posti al mondo sono finiti in questo paese di stronzi dalla memoria corta.

Mi domando che senso abbia farci tante superpippe culturali su La ferrovia sotterranea, i libri necessari, i presidi culturali, quando poi metti piede fuori dalla tua bolla ed è un troiaio di razzismo e odio febbrile dove il più pulito, moralmente parlando, c’ha la rogna.

Mi domando cosa resterà di noi quando i grandi vecchi che ci raccontavano la storia saranno tutti morti, la nuova generazione di vecchi non mi pare tanto all’altezza.

Ma se non fossimo sull’orlo del baratro seggio, avrei tutta questa paura?

Mi dico sì, certo.

E vorrei che fosse chiaro – qui dentro non ci sono indicazioni di voto, c’è solo lo sgomento davanti a quello che è il paese reale, le persone reali, la brava gente, che mi terrorizza a morte.

Vorrei che avessimo studiato le cose elementari quando avevamo l’opportunità – l’obbligo – di farlo, perché studiando – un po’, il minimo indispensabile – ti rendi conto che non è così banale e facile avere un’opinione ragionata su cose grandi come l’economia politica, i vaccini, il welfare o la legislazione.

Vorrei che fossimo migliori, uno per uno, perché allora sì, avere una classe dirigente che ci assomigli varrebbe la pena, sarebbe una cosa buona, e invece, nazionalmente parlando, facciamo cagare, e le campagne elettorali lo dimostrano.

Sono una donna eterosessuale bianca italiana con un lavoro senza disabilità invalidanti, e sono spaventata a morte, non tanto dal risultato elettorale che sarà quel che sarà e in qualche modo ce lo faremo andare, quanto dal mare di merda che è venuto fuori a livello umano durante questi ultimi mesi.

Che sicuramente era già lì, eh, ma scusate, io me ne sono accorta adesso.

E la seconda frase di Martin Luther King di cui parlavo all’inizio non me la sono dimenticata, eh.

È questa:

Anche se sapessi che domani il mondo andrà in pezzi, vorrei comunque piantare il mio albero di mele.

 

 

Stanno stretti sotto i letti

Ok, l’ho fatto. Un piovoso pomeriggio di novembre, mi sono recata ala visione pomeridiana della nota pellicola cinematografica IT, tratta dall’omonimo romanzo del grande Stephen King.

Libro mito assoluto, aspettative… beh. le aspettative non erano né alte né basse. più che aspettative erano preghiere. Fa’ che non sia una cagata pazzesca.

Ho cercato di leggere meno recensioni e commenti possibili, prima. Dal momento che non vivo in una baita in Val Chiusella, qualcosa mi è capitato sotto gli occhi, qua e là.

Il fatto è che non volevo fare la nerd oltranzista che va a vedere un film a chiappe strette perché parte dal presupposto che il libro è sempre meglio. Libro e film sono due linguaggi completamente diversi, aspettarsi la stessa cosa è demenziale.

Ma, del resto, se vai a vedere un film tratto da un libro che hai riletto decine di volte, e che sai quasi a memoria, e che hai amato come si amano solo certe storie di inaudita potenza che porti conficcate nel cuore ovunque tu vada, per forza il rischio cagata pazzesca è dietro l’angolo.

Oltretutto stiamo parlando di un libro che ha più di 1300 pagine. Già dividendolo in due, è una botta di materiale non indifferente. Materiale incandescente, tra l’altro.

Allora, il film mi è piaciuto?

Mah, sì. Ha una chiave molto più horror rispetto al libro, mi è sembrato.

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Artwork bellone fatto dall’Orso, AKA Aleroundyou

[Oh, da qua ci si addentra in due territori pericolosi. Quello dell’opinione personale, che è la mia: non sono Morandini né voglio esserlo, quindi se vi sembra che dica cagate, fatevene una ragione.

Il secondo territorio è quello degli spoiler: se non avete ancora visto il film/letto il libro, chiudete tutto e andate a fare altro. A meno che non ve ne freghi niente di scoprire cose che non sapevate succedessero, in quel caso ok. Non voglio scene in stile “Beth muore!“. ]

Diciamo che, se il romanzo It è per me un capolavoro, il film è un buon horror, ma non diventerà uno dei miei film culto da rivedere ciclicamente con amore e struggimento – come mi capita, per esempio, con i vari Harry Potter.

Cose che mi sono piaciute assai:

  • il cast. I ragazzini sono scelti benissimo, Ben è un ravioletto al vapore ripieno di burro e tenerezza, me lo sarei portato a casa in una scatola seduta stante, per dire. Bill Skarsgård è un ottimo Pennywise, persino Bev con i capelli corti m’è piaciuta.
  • Derry. La ricostruzione della città, e dell’atmosfera, è riuscita benissimo. La casa di Neibolt Street, i Barren, l’orrido Paul Bunyan di plastica: ci siamo, siamo lì, e guardati le spalle e non ascoltare le voci che vengono su dallo scarico del lavandino.

Cose su cui pensavo di aver da ridire e invece no:

  • l’ambientazione anni 80. È vero, resto fan di quegli anni 50 col frappè nel bicchiere di vetro e la ciliegina, ma alla fine, se entriamo un attimo nell’ottica di questo eterno revival dell’Era Del Mullet, il fatto che si svolga nel 1988 non toglie nulla alla forza della storia
  • la preponderanza della figura del clown rispetto alle altre incarnazioni di It. Per quanto la caratteristica di mostrarsi in maniera diversa attingendo alle paure più profonde del singolo, sia sicuramente una delle cose più caratterizzanti di It, è anche vero che, cambiando di continuo mostro in un film di due ore, si rischia di mandare in confusione lo spettatore. O almeno, è molto più difficile far passare che il clown, il lebbroso, l’uccello gigante, i bambini morti annegati e tutta l’allegra compagnia degli orrori sono la stessa cosa.
    In più, come già detto, il Pennywise attuale è strepitoso, quindi sfruttarlo al massimo è legittimo.
  • Bill che va a cercare Georgie perché non ne hanno mai ritrovato il cadavere. Questa è chiaramente un po’ una minchiata, ma secondo me c’era l’esigenza di spiegare in fretta perché ‘sti sette stolti stanno a sguazzare nelle fogne tutta l’estate.

Cose che mi sono chiesta: ma dove cazzo sono finite? Perché le hanno epurate così? Cosa gli costava lasciarle?

  • l’inalatore di Ed. Sì, compare, ma non è il feticcio salvifico del ragazzino -ipocondriaco per procura. È solo uno dei tanti gadget sanitari che si porta dietro.  Sembra quasi che a metà film regista e sceneggiatori si siano guardati e abbiano detto, oh merda, ci siamo scordati l’inalatore! E l’abbiano ficcato in una scena a caso.
    Mentre invece, cazzo, l’inalatore di Ed! Che diventa arma, grazie alla sua immaginazione. Scusate ma io sull’inalatore di Ed non transigo.
  • il papà di Mike. Non pervenuto. L’uomo che insegnerà al figlio la storia di Derry, e che è forse l’unico adulto ad avere un’intuizione vaghissima dell’esistenza di It, non c’è. Mike è orfano (?) e vive con dei rudi braccianti in una fattoria la cui economia si regge sullo sparare in testa alle pecore.
  • la fionda di Bev. Passi tagliare tutto il pippone sulla pallottola d’argento, avendo eliminato l’apparizione del licantropo etc, ma la fionda di Bev – malamente rimpiazzata dalla pistola ammazza-pecore dell’improvvisamente orfano Mike – secondo me ci stava anche senza dietrologie.
  • la capacità dei Perdenti di sconfiggere It attingendo alle cose che amano e che, alla fine, nel senso più profondo della storia, sono quelle che ti salvano dalla paura e dalla follia. Io questo nel film non ce l’ho proprio trovato, e mi è dispiaciuto.

Momenti WTF???

  • il padre di Henry Bowers che è anche lo sceriffo (tra l’altro, visto in un totale di tre scene, in una è zitto, in una sbraita, nell’ultima muore). Ma perché? Ma cos’è quest’avanzamento di carriera del vecchio sbronzone che vive di espedienti?
  • la donna-mostro, un po’ quadro di Modigliani, che terrorizza Stan. Ma da dove l’hanno tirata fuori? C’è qualche teoria accreditata che io non so? Illuminatemi.

Ecco, e poi la cosa più stronzissima di tutte che io proprio lì stavo per alzarmi nel buio del cinema e dare sfogo al mio sdegno con effetti speciali, tipo prendendo a borsettate la signorina dei pop corn.

BEVERLY CHE VIENE RAPITA DA IT. SALVATA. E RISVEGLIATA CON UN BACIO.

No, cioè, questa era proprio gratuita e inutile e anche se c’è un vago collegamento – presumo – con il rapimento di Audra nella parte relativa all’età adulta, comunque, no. Non puoi prendere Bev e farla diventare una qualsiasi damigella in difficoltà.

Capisco tagliare la scena di sesso di gruppo tra minorenni, che nel libro è resa in maniera ineccepibile, ma poteva essere troppo difficile sullo schermo. Però non si può dimenticare che è Bev che, con forza, tiene unito il gruppo e restituisce ai Perdenti un senso nel momento in cui tutto sembra perduto.

Per me quella scena lì, di lei appesa come un salame, inerte, impotente, che attende l’arrivo dei baldi giovani, proprio devono toglierla e mandare una lettera di scuse al mondo.

Per il resto, sono contenta di aver visto It al cinema – certo, peccatone per il doppiaggio, in lingua originale c’era ma non era compatibile con gli orari e gli impegni della cumpa Incorporella. Se mi chiedessero, vale la pena di andarlo a vedere, avendo letto il libro? Direi, sì. Puoi godertelo.

Ma il libro, come sappiamo, è un’altra storia.

Non per modo di dire, ma nel senso che parla proprio di altro, secondo me.

Parla del nostro amore – per le cose e le persone – che ci tiene vivi e vegeti e forti e combattenti anche quando siamo minuscoli, spaventati, laceri, nascosti.

Quel potere, quella magia, quella capacità di salvarsi e salvare gli altri, gridando con la voce del Poliziotto Irlandese, o nominando una a una le diverse specie di uccelli, o raccontando che sì, stanno stretti sotto i letti sette spettri a denti stretti, ecco, di tutto questo io nel film ho trovato solo tracce debolissime. E mi dispiace, perché è un’occasione perduta.

[Comunque io di It e del significato che ha per me ne avevo già parlato, in parte, qui. Mi ripeto? Oh yes. E del resto, c’ho una certa].

You can’t shut off the risk and the pain without losing the love that remains

L’altro giorno parlavo con Marianna della fiducia.

Sì, ci piace scegliere temi leggeri quando beviamo un caffè nella luce della Zandesede.

(Non è vero, parliamo anche di vestiti di ASOS e dei pettorali del dottor Karev, ma, via, immaginateci un po’ intellettuali, per una volta).

Io su questa cosa della fiducia ci ho passato un sacco di tempo, a farmi filmoni mentali e a sviscerare i pro e i contro con esempi pratici, che spaziavano dalla letteratura a Un Posto al Sole alla trisnonna della portinaia.

La sola conclusione a cui sono giunta, è che ci sono persone che si fidano e persone che no. Credo che nasciamo così, in un modo o nell’altro.

Io sono una che di base si fida.

Mi fido da boccalona, eh: mi fido del signore della Nespresso che mi dice che la nuova limited edition cacca di babbuino e chicchi del Venezuela è buonissima, mi fido dell’ammorbidente che col suo magico profumo mi trasmigra in Provenza. Mi fido del fondotinta che renderà la mia faccia uguale a quella di una modella sedicenne cresciuta tra i campi di grano dell’Oklahoma. Mi fido di chi mi ha detto “non sei tu, sono io“, ma anche “è la prima volta che mi capita” e persino “ma no ti giuro non è successo niente, è solo un’amica”.

Mi fido del signore della telefonia che mi fa firmare un contratto capestro di settecentoventidue mesi a soli quarantanoveenovantanove euri al mese con prelazione sui primogeniti miei e delle generazioni a venire, per avere in omaggio un Huawei usato e trentasei minuti di conversazione al bimestre.

Nella vita e nel lavoro, fidarmi mi è costato caro. Specialmente in termini di autostima: perché quando ti accorgi che sì, ok, la gente è stronza, ma soprattutto tu sei scema, trovarti una giustificazione che non ti faccia vergognare di te non è semplice.

Eppure.

Alla fine della fiera, non farei cambio. Mi piace pensare che una parte di me, rappresentata graficamente come una contadinella in salopette che tiene al guinzaglio un pony-unicorno, resti convinta della fondamentale bontà delle persone. Che sì, ci sono un sacco di malintenzionati, ma in fondo a fidarsi ci guadagni sempre di più che a guardare tutti in cagnesco tipo Scrooge con la gastrite.

Mio papà mi ha sempre ripetuto che fidarsi è bene, non fidarsi è meglio. Ma la cosa non ha attecchito, anche perché è detta da uno che ha fatto entrare in casa gli Hare Krishna e ha comprato tipo quattro libri sull’illuminazione e il bodhisattvayana solo perché gli facevano tenerezza, perciò.

E sì: anche io, dopo l’ennesima inculata con la sabbia, mi sono guardata allo specchio, ho alzato i pugni al cielo e ho giurato al cospetto degli dèi e degli uomini che mo basta, sarei diventata la regina delle nevi, cuore di pietra e sguardo di ghiaccio, sempre all’erta fra le insidie della giungla metropolitana. Poi sono uscita di casa, uno mi ha detto Dai guarda! Un porcellino a pois che vola! E io mi sono ritrovata col naso in su a cercarlo fra le cime dei platani.

La verità è che le inculate bruciano e te le ricordi meglio, ma se poi fai veramente il conto è più quello che hai guadagnato fidandoti che non quello che hai perso.

Il fatto è che io credo che la fiducia sia gratis.
Nelle relazioni umane e in quelle amorose soprattutto. La fiducia si guadagna ma fino ad un certo punto: perché se tu credi nella persona che hai davanti, non ti servono poi molte dimostrazioni, e vale anche il contrario. Se navighi a vista nel mare del sospetto, ogni indizio punterà contro.

Poi dipende anche un po’ da come vuoi (o sai) vivere. Io trovo che dubitare sempre delle reali intenzioni di chiunque sia una fatica terribile.

Né sono poi così convinta che questa fatica ti tuteli veramente. Non credo che lo stress del vivere sempre sul chi va là alla fine si traduca davvero in una vita priva di delusioni e amarezza. Anche perché forse – forse – l’amarezza più bruciante è proprio il senso di solitudine profonda che ti accompagna costantemente quando pensi che non puoi fidarti davvero di nessuno.

La vera saggezza, mi pare, è prendere atto di questa fiducia tradita, accettarla per quello che è senza negarla, rigare la macchina del soggetto in questione con un punteruolo da ghiaccio che fa subito Sharon Stone, e poi andare oltre.

Archiviarla, non dimenticarla – sul dimenticare i torti, mi spiace ma non ho mai imparato. Sono campionessa in carica di recriminazioni: fiduciosa sì, ma cagacazzo di più.

E non farla scontare a chi verrà dopo. Non farla scontare a te stessa. Tienila viva, la boccalona in salopette.

Ma se non sei capace di fidarti? Come impari?

Ecco, io non ne ho idea. Però magari comincia col dare retta a una promoter, le nuove merendine variegate menta e gorgonzola potrebbero davvero essere buonissime.

someday you will find me, caught beneath the landslide

Quando avevo tredici anni, alla fine della terza media, i miei genitori mi hanno mandata per la prima volta in vacanza studio in Inghilterra.

Avevo una paura porca.

Per me la scuola media non è stata esattamente un’esperienza da sballo.

Avevo un anno in meno di tutti i miei compagni di classe, il che, a dodici anni, si traduce nel giocare ancora a Barbie quando le tue compagne cominciano a fare i pompini (true story).

Ho pochissimi ricordi, e molto vaghi, di quei tre anni nel loro insieme.

Un giorno, a seguito di non so più quale fatto di cronaca, l’Orso mi ha chiesto: ma tu sei stata oggetto di bullismo da bambina? (L’Orso, ricordiamolo, ha visto il peggio delle mie foto di quegli anni, la sua domanda è più che legittima. C’avevo proprio l’aspetto tipico di quelle che vengono lasciate un trimestre con la faccia incastrata nel cesso, con tanto di occhiali e maglione peruviano con bamboline applicate, che ovviamente adoravo).

Ho frugato nella mia lacunosa memoria di allora e gli ho risposto: sì, probabilmente sì, ma non me ne sono mai accorta.
Con il senno della vecchia signora che sono, mi rendo conto che è più che probabile essere stata oggetto, quanto meno, di scherno e dileggio, di prese in giro ad ampio raggio. Ma io vivevo in un’altra realtà, parallela ma separata in maniera netta da quelle aule e quelle ricreazioni.
C’era la mia famiglia, sempre presente, i Nelli, le nonne, cuginanza varia, zii di sangue e zii d’elezione, una profusione d’amore che mi riverberava sempre addosso, una protezione ad ampio spettro contro la dura legge del gol.
Avevo i libri, soprattutto: il magico mondo dal quale non uscivo mai, se non per cause di forza maggiore. Chi ha bisogno del mondo reale quando c’è la letteratura?

C’era qualche amicizia, sporadica, particelle di sodio in acqua lete, qualche affetto residuo dalla scuola elementare, un po’ trascinato a forza, ma abbastanza per non farmi sentire sola.

A me, in quei primi di luglio mentre facevo la valigia, la vacanza studio in Inghilterra non sembrava un’idea così geniale – per dire, quando della vita non sai un cazzo.
Pensavo di non averne bisogno. Sì, certo, Londra l’avevo vista con i miei genitori e subito amata pazzamente, ma due settimane due con gente che praticamente non avevo mai visto, a fare cose che boh, cosa si fa a parte imparare l’inglese? Avrei poi scoperto che poi si fa tutto tranne imparare l’inglese, volendo, ma.

Sì, ero un po’ contenta, ma se mi avessero detto che era saltato tutto all’ultimo minuto, avrei fatto spallucce, mi sarei dispiaciuta un po’ e poi mi sarei ributtata di testa in qualche Gaia Junior o nell’ascolto ossessivo di Use Your Illusion.

Arrivata a Caselle, con la mia Samsonite lilla nuova fiammante, ero stata presa proprio un po’ dal panico. I Nelli, nella loro infinita saggezza, mi hanno baciata, fatto due raccomandazioni, affidata a chi di dovere e buttata nella mischia a calci in culo, senza girarsi indietro. Forse con qualche palpitazione, ma certi di aver fatto la cosa giusta, e infatti.

In quella vacanza ho conosciuto alcuni tra i migliori amici che avrò mai nella vita, ma non solo. Ho trovato la persona che ero, nel mondo reale, fuori dai libri e dalle cuffie del walkman.

Ho scoperto che, con le persone giuste, era facile essere me. Ridere di tutto, ma dei miei limiti e dei miei difetti in primis. Fare casino. Essere scema. Condividere i famosi discorsi esistenziali dei tredici anni alle due di notte, lacrime e abbracci, dediche e dichiarazioni, figure di merda e momenti di gloria.

Quando penso alla densità che aveva allora il tempo, mi chiedo dove cazzo è andata a finire, quell’intensità pazzesca, che in un pomeriggio demoliva imperi e riscriveva relazioni e ribaltava equilibri, e poi via, altro giro, altra corsa, altre cazzate inenarrabili.

Di quegli anni, mi resta per la prima volta la sensazione di essere un gruppo – perché poi, con qualche variazione, ci siamo trovati bene e abbiamo costituito un nucleo che ha messo a ferro e fuoco le strutture delle vacanze studio per sei anni consecutivi. Fino alla maggiore età, ché dopo non si poteva più, ma avremmo voluto.

Mi restano delle foto inguardabili che testimoniano tutti gli stadi dell’abbrutimento a cui una teenager può aspirare nel vano tentativo di essere alternativa.

Mi restano quaderni pieni di frasi criptiche che mi fanno ridere come una cretina anche vent’anni dopo.

Eravamo orribili e meravigliosi, rumorosi come un branco di bufali sotto LSD, grandi bevitori di Tango all’arancia e Coca Cola aromatizzata alle cose che non si trovavano in Italia, capaci di prenderci per il culo fino alla sfinimento, ma anche ferocemente amorevoli nei confronti gli uni degli altri, quando ce n’era bisogno.

Io devo molto, a quegli anni: se dovessi scegliere una cosa sola, la capacità di non prendermi troppo sul serio.

E quella di interagire con i teachers locali – che ci sembravano super maturi, ma avevano vent’anni – per ottenere qualche birra di contrabbando, passata fuori dalla finestra del pub.

Tutto si immagina

Io amo le storie.

Leggerle, ascoltarle, raccontarle. Amo anche scriverle, è uno sporco lavoro e non viene sempre bene, ma è anche un piacere personale purissimo e indiscutibile. Ormai da tre anni mi regalo due ore alla settimana per frequentare corsi di scrittura (tipo questo e questo) che si traducono in pagine e pagine di appunti, files di word, riscritture, note in brutta grafia su quaderni sconnessi, ma soprattutto, come diceva il buon vecchio Mike: allegria. Soddisfazione, gioia, diletto, gaudio, delizia, godimento, beatitudine: un intero plateau di sinonimi a cui attingere.

Scrivere è un lavoro solitario, frequentare un corso di scrittura lo rende meno umida stanzetta e più gita del liceo. Trovi persone che ti assomigliano anche se sono diversissime da te, trovi sogni, trovi obiettivi, e – ovviamente – trovi storie.

Trovi Maestri e trovi amici.

Trovi risate, complicità, trovi quella fame di altrove che si realizza nell’essere umano appena le lasci spazio.

Sabato 11 febbraio era il giorno prima del mio compleanno e per me tutti i giorni prima e anche alcuni giorni dopo il mio compleanno valgono come festeggiamenti.

Sabato 11 febbraio c’era il corso di Elena Varvello da Zandegù e io ho preso un permesso dal lavoro e ci sono andata.

varvello_zandegu

Faccio solo foto altamente significative, io.

Elena Varvello è mesmerizzante.

Lo so che probabilmente ci sono parole più adatte a descriverla – scrittrice, insegnante, autrice, narratrice – e aggettivi spesso superlativi che non possono mancare – bravissima, preparatissima, appassionata e appassionante, pescate a caso nella gamma dell’apprezzamento e ce l’avrete.
Io, dalla prima volta che l’ho vista in classe (ormai un paio d’anni fa) e l’ho ascoltata parlare, ho pensato questo. Mesmerizzante. Il correttore di word lo segna rosso e preferirebbe forse una cosa tipo ipnotica, o suggestiva, ma che ne sa un correttore di quello che capita quando Elena Varvello si sfila gli occhiali e inizia a parlare?

La lezione a cui ho partecipato io si inserisce in un percorso più ampio di cinque lezioni (ne restano ancora uno, just in case vi stessero prudendo le mani) e il focus centrale era sui personaggi che parlano.
Il personaggio  – e il dialogo – è stato l’atomo intorno al quale Elena ha costruito un universo in poche ore, ci ha portato per mano nelle stanze della scrittura, ci ha fatti entrare per qualche attimo, ci ha tenuti sulla porta a guardare, e poi abbiamo camminato su laghi ghiacciati, abbiamo guardato il bosco dall’alto, e poi ci ha detto: scrivete.

Sul polso Elena ha tatuato “Tutto si immagina”.

Quel tatuaggio io l’ho visto fresco alcuni mesi fa, al Circolo dei Lettori, quando siamo andati ad ascoltarla presentare La vita felice, l’ultimo romanzo che ha scritto.

Ecco: quella frase, quel tatuaggio, è il riassunto migliore che potrei fare per raccontare una lezione di Elena Varvello in un tweet.
Tutto si immagina: con la sua voce, con esempi, con disegni buffi e senza mai perdere l’occasione per una battuta e una risata, abbiamo immaginato tutto dei nostri personaggi. Io ne avevo un paio in mente, i miei compagni di corso anche, e chissà lei a chi pensava.

Di verbo in verbo, abbiamo iniziato ad ascoltarli.
I personaggi parlano, non chiacchierano: e abbiamo imparato che il dialogo più riuscito si esprime nel non detto, nel silenzio.

Sembrerà mica facile, una cosa così, quando poi sei a casa e il cursore lampeggia e tu non sai che minchia si dicono ‘sti due mentecatti che stanno lì seduti al tavolino di un bar ed è tutto uno spazio vuoto da riempire e tu non riesci a decidere, se attingere ai ricordi, alla realtà, alla preghiera, o se spegnere tutto e andare a guardarti una puntata nuova di Girls.

Ed è lì che ti viene in mente: tutto si immagina.
Quello che ti resta, dopo un corso di scrittura fatto bene, sono gli strumenti. Gli scalpelli per martellare quel blocco bianco di marmo che hai nel cervello al posto dei neuroni, per creare spiragli da cui possano uscire le parole, e i due mentecatti di cui sopra comincino a respirare e a esprimersi in un modo che – speriamo – non assomiglierà a una puntata della Telenovela Piemontese.

Quando è finito il corso siamo rimaste ancora un po’ lì a fare salotto e a farci promesse: scrivere, soprattutto, è la promessa più impegnativa, e l’unica che conta.
Poi, visto che io sono io, mi è venuto un po’ di sagrìn, perché era già finito tutto, volato in fretta, avrei voluto ricominciare la giornata da capo, anche perché io dalla Zandecasa vorrei non andarmene mai, stare lì con le persone e Sandra e Raimondo e il caffè e la torta di Sara e i cuscini a punto croce con su scritto Tarapia Tapioco.

Allora ho capito che dovevo andare a casa e scrivere.

Perché il modo migliore per far passare il sagrìn, è sempre raccontarsi una storia.

[Già che ci sono: qualche link bonus che magari vi interessa.
La pagina Facebook di Elena Varvello.
Il prossimo corso che terrà da Zandegù.
Il sito del Maestro primigenio e reverendissimo, quello che campeggia come un santino nei miei quaderni squinternati e che cito a sproposito ogni volta che parlo di scrittura.
Quello che pensa Valentina e quello che pensa Francesca: due riflessioni super azzeccate sui corsi di scrittura].

le foto brutte

Un paio di settimane fa, a pranzo dai Nelli, è comparsa una vecchia scatola da scarpe piena di foto.

Erano le foto scartate, quelle che non hanno mai trovato posto negli album. Le foto brutte, insomma.

È doverosa una premessa: col tempo mi sono aggiustata, ma dai 9 ai 18 anni sono stata una cosa inguardabile. Non manco mai di ringraziare le divinità olimpiche che mi hanno consentito di trascorrere l’adolescenza senza il trauma del social network, foto orrende sparse a profusione tra i miei contatti, tag malefici che mi avrebbero accompagnata dritta dritta in uno sgabuzzino buio, o con un sacco in testa tipo Charlie Brown, direttamente sul lettino dell’analista e del chirurgo plastico. Ero un cesso e ce lo ricordiamo tutti, ma facciamo finta che io sia sempre stata normale.

La moda certo non aiutava, e quando nelle vetrine rivedo i jeans a sacco che hanno martoriato i culi della mia generazione sento un brivido dentro, ma la moda gira, bellezza, sono tutti cazzi a venire delle sedicenni di oggi, e non è più una mia battaglia. Pensateci due volte prima di comprare un body a righe orizzontali, è tutto quello che mi sento di dirvi.

Le foto brutte che abbiamo riguardato, però, non erano solo brutte. Erano belle. Erano spettinate. Erano tenere.

C’era una certa giovinezza, nell’aria, un candore, sorrisi spontanei e gesti tipici immortalati senza volere.

Alcuni, con i dovuti aggiustamenti, sono fra le foto migliori delle persone ritratte. In una mamma Scopella eccezionalmente ride nel vento di Londra, e basterebbe tagliare un certo monolite in giacca di jeans (io) per avere un’immagine memorabile. Perché mia mamma odia farsi fotografare, e se non la becchi di soppiatto ha sempre la stessa faccia da colonscopia, pure nelle foto del matrimonio.

E così rivedi la nonna Romana a occhi chiusi nel mezzo di una risata, la mano sollevata in un gesto suo tipico, con mio papà alle sue spalle piuttosto simile ad un orango mentre dice qualche cazzata impronunciabile.
I miei cugini, padri di famiglia pettinatissimi e onorabili, sbracati sul divano da piccoli che fanno smorfie con in mano una scimmia di peluche che dà adito a somiglianze.
Cugina Vitto vestita a festa intorno ai due anni, con l’aria scazzata e un dito nel naso in segno di protesta.
Papà Nello che fa il  cretino millantando pose sexy sulla spiaggia di Lerici, uscito dritto da una puntata di Narcos, col baffo latino e gli zoccoli da tirolese, che dio solo sa perché erano indumento di punta delle sue estati.
La nonna Mary elegantissima come sempre, a Natale, che ascolta i discorsi con aria compunta ma beccata di sguincio con uno scoscio che neanche Alba Parietti.
Zio Bruno palesemente ubriaco, in braghette, mezzo steso sul tavolo, che forse canta qualcosa del repertorio melodico napoletano a zia Lucia, la quale a sua volta sfoggia una permanente oltraggiosa e un’aria scandalizzata che le riesce male, perché si vede che le scappa da ridere.
Mamma Scopella che fa una faccia identica alla mia – e già questo colpisce in pieno, perché la leggenda vuole che io sia uguale a mio papà, e invece. Quella faccia lì che ci viene quando siamo costrette all’ascolto di una supercazzola – fatta da anonimi, nel caso della foto –  e la dicitura “che palle” che esce da tutti i pori.

Una serie di scatti inspiegabili in cui la sottoscritta, in costume tipico montano, con il favore delle tenebre, danza una giga alla festa del paese. O meglio: tutti intorno a me cambiano posizione, e io resto ferma sperando di confondermi con un pilastro di sostegno.

E lì mi è venuto da pensare con nostalgia a quando ci permettevamo di avere foto brutte, ma mica perché eravamo migliori e facevamo le cose con un’etica superiore: solo perché non sapevamo come sarebbero venute, e avevamo sempre la speranza recondita di essere carini. Poi, una volta stampate, non è che le buttavi: un po’ perché costavano, un po’ perché strappare le foto era il colmo dell’oltraggio, riservato solo agli assassini di gattini e ai traditori della patria. Strappare le foto portava male ai soggetti ritratti, perlomeno a casa mia, che è sempre stato uno strano consesso di agnostici pronti a credere a pratiche spiritiste mixate con superstizioni partenopee e antiche leggende indiane.

Mi piace pensare che anche in futuro di noi resterà altro oltre ai filtri di Instagram, immagini che non cancelli perché ti ci affezioni, in cui sei un po’ Sora Lella ma non ti vergogni a ridere anche di te, nel privato della tua famiglia, di chi ti vuole bene uguale al mattino appena sveglia o alle tre di notte con la faccia da Dracula, di chi ti perdona i look discutibili e i tagli di capelli da ananas, gli occhiali a fondazzo di bottiglia e le espressioni un po’ paleolitiche che ti portano a chiederti: ma sarò stata normale?

Che poi sì, non farà bene all’autostima vedermi ritratta ciclicamente, nel corso degli anni, a chiappa al vento con i buchi di cellulite e il doppio mento e l’espressione assente mentre leggo a gambe incrociate su divani, sdraio, letti e prati: ma sono proprio io, in quelle foto brutte, così inequivocabilmente me stessa che pazienza se faccio cagare e sembro Jabba the hat.

A volte essere stati bene è forse meglio che essere stati belli. O almeno: a volte è più divertente, e toccante, da riguardare insieme.

il dritto di essere chi vuoi

E così sappiamo chi è Elena Ferrante.

I suoi lettori, a dirla tutta, secondo me lo sapevano già: una scrittrice amata, una narratrice impeccabile, la costruttrice di un mondo popolato di figure che restano a lungo nella tua coscienza a raccontarsi.

Di tutto il clamore, a me resta l’amarezza: preferivo il mistero. Ricordo lo scambio su whatsapp quest’estate con la mia amica di Belgrado, il suo aver letto “L’amica geniale” appena tradotto in lingua serba, l’entusiasmo per la storia e i personaggi – così lontani da lei e da me, eppure universali, come tutte le grandi narrazioni. La nota di colore e pensa che nessuno sa chi sia!, la battuta finale potrei addirittura essere io, l’ovvietà del non essere io, le considerazioni fatte insieme a lei – che è psicoterapeuta – sulla scelta di mantenere uno pseudonimo senza togliersi la soddisfazione di prendersi il merito in faccia al mondo. Non è una roba ovvia, soprattutto in un momento storico in cui chiunque faccia una scorreggetta appende i cartelloni per strada per fare sapere che quella puzzettina lì, signori, era proprio sua!

Che poi per carità potesse essere anche un’operazione di marketing, ma ci sta: i libri si vendono anche così, non solo, infatti l’abisso tra l’opera di una Ferrante (incredibile narratrice) e un JT LeRoy (escamotage ben orchestrato) si misura nella quantità di pagine scritte e storie narrate prima ancora che nello smascheramento della “verità”.

Di solito, chi ama i libri ama le storie, e che questa signora (signorina?) Ferrante scegliesse un po’ di raccontarsi come le pareva  era parte del patto narrativo con il lettore, secondo me. Il lettore non morde la mano che lo nutre. Il lettore sospende il giudizio e accetta universi alieni e maschere, perché quello è il bello del gioco.

Certo c’è tutta una parte, poi, di contatto con chi scrive: io ho adorato avere l’occasione di bere un amaro e fare due chiacchiere con Fabio Genovesi poco tempo fa, e potergli esprimere tutta la mia gratitudine per aver scritto una cosa come Esche Vive – tutto il resto anche, ma Esche Vive soprattutto. E conservo ancora tre righe di lettera di Stefano Benni, inimitabile Lupo, in risposta ad una mia torrenziale missiva di post-adolescente con Elianto tatuato su una spalla e nel cuore.

Queste sono gioie da groupie letteraria che però, secondo me, possono aggiungere qualcosa alla persona dietro allo scrittore, ma non sono parte del contratto. Neanche del contratto tacito col lettore.

Chiunque almeno una volta nella vita abbia provato a scrivere un testo narrativo, conosce la natura privata dell’atto di scrivere. Del metterti lì con le tue idee, le tue sensazioni, la scaletta, i personaggi, i ricordi, e avere davanti un foglio bianco muto che sembra sfotterti, dirti e adesso? Come la risolvi? Non c’è nessuno, qui, che ti possa aiutare.

Se sei abbastanza brava, il tuo atto privato, un giorno, diventa pubblico. Diventa molto pubblico, se sei molto brava. In parte, quello che hai scritto smette un po’ di essere tuo, non puoi più rimaneggiare, limare, correggere. Aggiustare il tiro, spiegarti meglio. Chi ti conosce, cercherà una verità nascosta del tuo quotidiano, un pensiero laterale, una rivelazione. Più gente ti legge, più gente ti conosce. Nella mia personale visione delle cose, un libro è un dono generoso al mondo, un denudarsi, uno scoprire il fianco non solo alle critiche più o meno letterarie, ma anche a chi cercherà a tutti i costi la persona dietro al protagonista principale. E tutto questo cresce, esponenzialmente, con la fama.

booksmith

“My brilliant friend” sullo scaffale dei libri consigliati della libreria Booksmith a San Francisco, agosto 2016

Una volta che la tua storia viene pubblicata e distribuita, è aperta alle interpretazioni, alle chiavi di lettura a cui tu non avevi neanche pensato, ai sottintesi che la gente ci troverà perché vi si leggerà con il suo vissuto e le sue esperienze, come uno specchio.

Io credo che una persona abbia il diritto di non volere vivere a viso aperto tutto questo, per pudore, per libertà personale, anche per snobismo, magari, ma cazzi suoi.

Anita Raja, o chi per essa, può non aver voglia di essere Elena Ferrante quando va a comprare i cavolini di bruxelles per cena. L’importante, per me, è che abbia voglia di essere Elena Ferrante davanti allo schermo del suo computer, sui suoi quaderni di appunti, in quei luoghi deputati in cui la Ferrante vive e scrive.

Penso a Richard Bachman, che è servito a Stephen King per provare a fare cose che in quel momento Stephen KIng non era sicuro di potersi permettere. O a Robert Galbraith, il cui Cormoran Strike mi ricorda in maniera impressionante il professor Moody, e chissà se J.K. Rowling se ne è mai accorta.

La cosa più divertente dello scrivere narrativa, al di là della fatica e del sangue che puoi sputarci, è che hai il diritto di essere chi vuoi, nello spazio di quelle righe, in quei margini hce non sono mai, mai limiti. E le volte in cui ti viene meglio, credo siano quelle in cui riesci a liberarti di te stessa, di quella che deve andare a comperare i cavolini di bruxelles per cena. La narrativa è il luogo dove tutto è possibile.

E l’amarezza che provo a seguito di tutto questo affaire Ferrante, è che questo diritto che l’autrice si è conquistata sul campo le è stato negato.

Spero che Elena continui a scrivere. Anita faccia un po’ quello che le pare.

Talk is cheap

Cara ministra Lorenzin, cara Bea,

abbiamo lo stesso nome, e, no, non posso dire che mi faccia piacere, se per caso nella faccenda nomen/omen ci fosse mai qualcosa di veritiero.
Sulla pregevole iniziativa del Fertility Day, in queste 24 ore, è già stato detto (in maniera egregia, nella maggior parte dei casi), di tutto. E quindi potrei esimermi. Sono proprio sulla soglia dell’esenzione, e mi dico, ma sì, ma chi te lo fa fare? devi proprio sempre dire la tua? Ovvio che no.

Però vedi, questa roba qui riguarda proprio me. È personale, come dire. Me l’hai proprio mandata via raccomandata espressa assicurata posta prioritaria.

Io ho 36 anni e non ho figli.

Non li ho mai cercati. Sono fertile? Non lo so. Tutti i giorni appena sveglia prendo una pillola anticoncezionale, da sempre, da quando ho rapporti sicuri – con Orso certificato, otto anni di relazione amorevole seppur burrascosa più che disneyana, con cui convivo, entrambi lavoriamo, e lavoriamo per persone oneste, illuminate, che mai cercherebbero di usare una mia (nostra) gravidanza come scusa per silurarci.

Non ho mai provato ad avere figli.

Presumo di essermeli immaginati, in giovane età, forse più per hobby e appartenenza culturale che per istinto materno, nel corso degli anni, ogni tanto ci penso, mai abbastanza per smettere di prendere quella famosa pillola di cui sopra. Sono per mia fortuna circondata di persone, in famiglia e fra i miei amici, che non mi hanno mai fatto pressione in questo senso. Non hanno mai indagato i miei motivi reconditi, miei e dell’Orso – ci tengo a specificarlo, perché no, non sono un’ameba, non li farei per partenogenesi, né sono una virago pazza che ha sottomesso il suo compagno al suo egoismo con l’uso di armi improprie e torture psicologiche.

Semplicemente è passato il tempo, le persone intorno a me si sono riprodotte, ho fatto la conoscenza di nipoti eccezionali, creature multiformi e meravigliose che non mi hanno mai fatto scattare nessun clic. Ho amiche che rientrano nelle tipologie materne più disparate, ognuna con sua propria dignità e caratteristiche. La necessità di unirmi al club ancora non si è palesata. Vado pazza per i bambini? No, certo, proprio non si può dire, anzi, spesso, dopo serate in loro compagnia, tiro un sospiro di sollievo pensando che adesso c’è qualcuno che si puppa i loro pannolini e le loro esigenze e che quel qualcuno non sono io. Sono una persona cattiva? Non credo. Non li maltratto, mai, e sono una babysitter coi fiocchi: l’ho fatto per anni, all’università e in tempi più recenti, con reciproca soddisfazione, mia e loro. Sono un po’ Grinch più a parole che nei fatti, ammettiamolo.
Però figli non ne voglio.

Cambierò idea? Mi pentirò? Morirò sola e triste divorata da un pastore alsaziano?

Non lo so. Se sapessi prevedere il futuro, mettere un chioschetto di psychic consultant sulla spiaggia di Santa Monica e mi arricchirei divinando Oscar per le celebrità.

È tra l’altro una mia personale convinzione (e quindi del tutto opinabile e controvertibile) che questa focalizzazione sul ruolo materno assoluto e totalizzante, e centrale nella vita delle donne, sia frutto molto più della crisi economica e della scarsità dei posti di lavoro che non di una riscoperta pastorale dell’importanza della Dea Madre. Insomma, secondo me fa abbastanza comodo allo stato e alle aziende avere una schiera di mamme che scelgono di esserlo a tempo pieno, lasciando senza grandi rimpianti posti di lavoro liberi, e concentrandosi sulle gioie dell’allattamento anziché rompere il cazzo per ottenere i nidi aziendali. Ma ritengo anche che nessuno – e io meno di tutti – debba andare a dire a una donna che deve lavorare e pensare alla carriera e alla propria autonomia anziché essere felice e contenta di fare il pane in casa. È anche quello un diritto inalienabile e che va tutelato insieme agli altri. E mi piacerebbe che anche gli uomini potessero occuparsi dei figli a tempo pieno, volendo: senza essere additati o derisi o ostracizzati per questa scelta.

Ma quello che volevo davvero dire riguarda me, non le mie opinioni baravantane sugli uteri altrui.
Volevo dire che non mi sento una donna a cui manca un pezzo, e disprezzo in maniera profonda e viscerale chiunque, in maniera più o meno diretta, cerchi di insinuarlo. Che lo faccia con leggerezza, ignoranza, premeditazione: non ci sono scusanti.

Perché, se poi vogliamo dirla tutta, mi mancano un sacco di esperienze formative e meravigliose. Vivere e lavorare all’estero. Creare arte. Il paracadutismo. Viaggiare sola. Avere un animale domestico. Vincere un premio Nobel. Eccellere in uno sport (a essere onesta, mi manca pure praticarlo con costanza e determinazione, ma vabbè). Curare un orto o un giardino. Salvare vite umane. Fare la differenza in un’emergenza collettiva.

Allora, se proprio dovete rimproverarmi qualcosa, avete l’imbarazzo della scelta, voi che avete pensato questa campagna. Perché non sono andata a distribuire medicinali sulle coste, ai rifugiati della Siria, anziché stare a casa a guardare Stranger Things? Perché non ho studiato di più – e meglio – per contribuire a una cura contro il cancro? Perché non vado a dare da mangiare ai senzatetto nelle sere di novembre? Siate creativi. Ci sono milioni di cose utili e belle che una donna sana e abile di 36 anni può fare per dare un senso alla sua esistenza. Cagatemi il cazzo su quelle.

Oppure, magari, non cagatemi il cazzo e basta. Perché il corpo della donna – il MIO corpo, porchissimo giuda –  deve sempre – sempre – essere al centro di qualche discussione, immortalato sui cartelloni e sui giornali insieme a qualche slogan, oggettivarsi per fare da spunto a qualche discussione politica, essere vivisezionato nei salotti e nelle aule e nei cenacoli aulici e nelle sale parrocchiali e negli studi televisivi e nei più rappresentativi cessi della nazione?

Oh, vogliamo parlare di educazione sessuale e affettiva, ma benissimo, bellissimo, ma vengo io a fare del volontariato e a distribuire volantini, gratis, tutte le volte che volete. Vengo io a chiacchierare con le ragazzine e i ragazzini, non mi imbarazzo neanche se dicono sborra, figa, cazzo e culo, ché quello è il linguaggio di molti (lo sapevate?), e se gli parlate di pene e vagina forse smettono di ascoltare dopo il primo minuto.
Ho una mamma Scopella che lo fa da trent’anni in tutti i consultori del west, lo fa anche quando sfora dai tempi prestabiliti e torna a casa con ore e ore di straordinari non pagati, lo fa anche con chi va da lei carica di autodiagnosi e arroganza, lo fa con chi ha la minaccia della denuncia sempre in canna, lo fa con chi la ritiene un’assassina prezzolata, una donna di merda al soldo di Big Pharma, lo fa con chi le manca di rispetto e di fiducia, e lo fa bene, con pazienza e passione, perché è il suo cazzo di lavoro, e tutela le scelte delle donne anche quando non è d’accordo con loro. Sempre.

Parliamo di anticoncezionali, di malattie sessualmente trasmesse, di endometriosi, di relazioni abusive, di squilibri ormonali, di prostate, varicocele, di parti e placente, di pornografia, di eiaculazione, di falsi miti e grandi speranze, di menopausa, di secchezza vaginale, di prolassi, di gravidanze indesiderate, di infertilità, di adozioni, di omosessualità, di genitorialità consapevole, di mestruazioni, di polluzioni, parliamo di tutto, con tutti, parliamone in prima serata, nelle piazze, parliamone a tavola, parliamone in modo talmente vasto e capillare ed esaustivo che nessuno più, uomo o donna, di qualsiasi età, possa dire: non lo sapevo, non credevo, non pensavo.

[Parliamone con gente che lo fa per lavoro, magari. Con professionisti del settore, che hanno dei titoli di studio attinenti. Perché per parlarne a cazzo di cane con celebrità ripescate dai meandri del palinsesto, o con gente che si è fatta un’opinione su internet, allora possiamo anche lasciare perdere.]

Parliamo di diritti, parliamo di doveri.

Parliamo dei doveri dello stato verso le famiglie di ogni genere, composizione, etnia, dimensione. Non parliamo solo delle famiglie che vi fanno comodo, perché comunque pure quelle non è che mi sembrino proprio coccolate, eh, io ve lo dico. Mi pare che, una volta che si sono fatte (alleluja istituzionale), poi ve ne battiate un po’ le balle, di come se la cavano.

Prima di cominciare a parlarne, e mi sento in dovere di aggiungerlo, visti i toni con cui era partita la campagna ministeriale informativa al riguardo (che poi magari è partita pure per informare bene eh, io il beneficio del dubbio sulle intenzioni ve lo concedo senza problemi), ricordatevi che si va a toccare una sfera personale e intima nel senso più letterale del termine. Se perfavore si potessero evitare slogan del ventennio, ricatti morali, mercificazione dei corpi, luoghi comuni da coda in posta, discriminazioni per sesso e razza, echi di dogmi religiosi, cazzate clamorose, stigma di ogni genere, ideologie medievali, prospettive machiste, gomiti sul tavolo e dita puntate, io ve ne sarei grata.

E se non siete in grado, fate altro. Perché come si dice dalle mie parti, un bel tacer non fu mai scritto.

Perché, con buona pace delle belle intenzioni, piuttosto che una campagna passata al pubblico così, era meglio niente.

 

[nell’immagine in evidenza: foto pigiama figo con all’interno corpo istituzionalmente inutile, e pure fuori forma, signora mia!]

Bar Sport 2016

La verità è che ci siamo un po’ rotti le palle dei posti fighetti.

[Parlo al plurale non perché soffro di manie di grandezza, ma perché ho fatto questa considerazione già con un tot di amici e amiche, almeno una decina, per dire].

Mi faccio portavoce del popolo.

Dicevo, i posti fighetti, dove vai a bere un prosecco e sembra che devi andare ad un provino, quelli in cui ti devi per forza sentire e acconciare come se fossi a Williamsburg, o a Ibiza, o a Copenhagen. Ogni tanto non hai voglia di fare la figa – la maggior parte delle volte, ammettiamolo. Hai solo voglia di uno spritz e due patatine dopo aver lavorato, l’obiettivo finale dell’aperitivo è fare quattro chiacchiere con un’amica, senza preoccuparti se il rimmel si strucca, brutta.

Il nuovo trend – non – trend è il bar di quartiere. Il baruciu, come lo chiamiamo in famiglia. Quello un po’ racchio, un po’ squallido, ma dove alla fine sei di casa.

Il top sono i chioschi all’aperto, in cui puoi fare tutto, dalla merenda all’anguriata di mezzanotte. La prima volta che ci vai scatta il gioco di sguardi che neanche all’OK Corral, poi se ti mostri sufficientemente umile e cordiale e ci torni un po’ di volte la situazione si ribalta e diventi local. L’importante è fare attenzione ai tavoli, cercando di occupare sempre lo stesso e mai uno di proprietà del cliente storico cugino in seconda del barista, non pretendere cose strane (tipo: mi fa un Moscow Mule per favore, è la frase da non dire mai, ma anche una cosa tipo piatti vegani ne avete? può valervi l’espulsione dal chiosco vita natural durante fino alla terza generazione).

Il chiosco all’aperto d’estate è la salvezza estrema, scendi in ciabatte e col pinzone e sai che comunque sarai la più figa della situa. Noi ne abbiamo uno proprio dietro casa che secondo me fa salire il valore degli immobili di zona un bel po’.

I chioschi estivi però d’inverno – o nella stagione dei monsoni, quella che a Torino dura da aprile a luglio subito prima della siccità canicolare – dicevo, quando fa freddo o quando piove, i chioschi sono una ferita aperta di ciò che potrebbe essere, fanno malinconia, come gli ombrelloni impilati in un angolo o il frigo dei gelati con dentro un solo Calippo gusto maracuja superstite da due estati fa.

Per scaldarci con un San Simone nelle lunghe serate invernali io e la mia amica Frankie abbiamo un posto di riferimento, che è il Bar Centro. La distanza fra il Bar Centro e il Centro a cui fa effettivamente riferimento è molto più che chilometrica: è una distanza siderale di filosofia ed estetica, di potenzialità e realismo.

Il Bar Centro condensa in pochi metri quadri tutti i riferimenti baristici possibili dagli anni 50 ad oggi. È la Wikipedia del bar. L’arredo è anni 70, le sedie anni 90, la Gazzetta fresca di giornata. Cibo non ne ho mai visto. La selezione liquori è ampia e variegata, la top ten dei più bevuti è facilmente intuibile dagli strati di polvere. Ci sono le macchinette lampeggianti, ma anche i mazzi di carte bisunti.
L’amore per questo luogo, per me, è stato sancito da un cartello scritto a biro su foglio di carta  scotchato alla macchinetta del caffè che recita le seguenti parole: “Si ricorda ai signori clienti che prima delle 18 è severamente vietato sparare cazzate”.

Il televisore è sempre acceso su qualche partita. Credo che seguano via satellite anche il campionato interregionale dell’Azerbaigian.

Dietro al bancone c’è lui, l’archetipo del barista. Giovane, sempre in tuta, delle dimensioni di una Smart. Ci riconosce e ci racconta cose, si ricorda chi delle due vuole il ghiaccio nell’amaro, si accorge se abbiamo cambiato taglio di capelli e non si preoccupa se portiamo fuori il bicchiere per andare a fumare.

La clientela è variegata, può sembrare inquietante a prima vista, ma nessuno ti rompe mai i coglioni. Al massimo ci sono accese discussioni di stampo calcistico, nelle quali non oserei intervenire neanche dietro compenso in denaro o beni immobili.

Il Bar Centro è una garanzia: è sempre aperto. Non tradisce mai.

Prima del Bar Centro, nella mia vita, c’è stato il Bar Lupi, dove mio papà andava a giocare la schedina, portandomi con sé. Il Bar Lupi non l’ho mai visto bene, era avvolto in una nebbia tipo sobborgo della Londra vittoriana a novembre. Il Bar Lupi poteva vantare una clientela ad alto tasso alcoolico e giudiziario. L’ultima volta che sono passata da quelle parti, ho visto che, in onore alla nuova clientela, ha cambiato nome: si chiama Bar Giamaica. Ho buttato l’occhio, sono stata salutata da una nube di fumo, dall’opacità della formica, da un bagliore di superfici in alluminio riflettenti marezzate di ditate altrui.

Sotto la nuova insegna, il Bar Lupi vive ancora. Bar Lupi never say die.

 

Cose che capitano

Il silenzio sul blog non è per forza silenzio nella vita vera.

Anzi, forse, più cose hai da fare che implicano uscire, un paio di scarpe, una smanazzata di trucco per renderti presentabile, sorridere alle persone, ecco, più cose capitano fuori, meno hai tempo di fare il punto “dentro”, e scrivere quello che ti passa per le mani e per la testa.

A volte ho la sensazione che se non documenti quello che fai, ti scivoli via. E quindi vai di foto su Instagram, tweet su cui smadonni perché 140 caratteri, per una che ha sempre avuto una tendenza alla logorrea, sono davvero pochi. Cose su Facebook.

Che poi bisogna distinguere: ci sono quelle cose che faccio per lavoro, e di cui mi va di raccontare, anche solo per immagini e frasi brevi, perché sono un po’ il mio curriculum, che se un giorno mai qualcuno mi chiederà, va bene, ma a parte leggere molti libri, che cosa hai combinato per guadagnarti il pane? In quel giorno, forse, avrà in senso rispondere “questo”.

Dietro invece c’è tutto un pout-pourri di grovigli umani e sorrisi e sigarette fumate nella macchina spenta sotto casa di un’amica, serate sul divano con visioni di Game of Thrones cui seguirà dibattito, viaggi in autostrada sotto piogge torrenziali, birre bevute ai giardinetti sotto un sole inatteso.

Dietro ci sono io e ci sono loro, i compagni di viaggio.

Il best of di questo ultimo periodo annovera sicuramente (vai di elenco, che mi piace sempre):

  1. la Società Anonima Lettori: ovvero io e Massimo che andiamo in giro a raccontare storie, libri, personaggi. Siamo stati a Casseta Popular, che è davvero una seconda casa ma meglio, perché ci vengono le persone belle, Vale e il resto della truppa ti cucinano le cose buone, si chiacchiera, si ride, e alla fine non devi neanche lavare i piatti e mettere a posto. E poi siamo stati alla Grande Invasione a Ivrea, che vuol dire una città già bella di suo che diventa ancora più bella, e vive e risplende nel sacro nome dei libri e della lettura. E la gente, signora mia, la gente bella che fa cose si muove organizza ascolta progetta esiste e ti rimanda a casa carica di un’energia pulitissima e rinnovabile, che parte da lì e si allarga come il mantello di Batman su tutto il tuo cuore e su tutte le tue idee.
  2. Raccontare scrittrici: ho avuto l’opportunità di chiacchierare sia con Vittoria Baruffaldi che con Valentina Stella dei loro libri, alla Gang e al Circolo dei Lettori, ed è stato bello, e mi ha resa fiera di loro e di me e di tutti questi modi diversi e molteplici di essere una donna (mi viene da dire una ragazza, perché per me noi siamo sempre ragazze). Di raccontarci e di crearci come più ci piace, senza giocare a chi è più figa delle altre o ha avuto più successo nella vita. Mi sono divertita e mi sono emozionata, e soprattutto mi è rimasta la sensazione che un cambiamento grande, generazionale e per le ragazze che verranno, possa partire da questo. Dal fare la propria scelta, dal coltivare i propri interessi (o talenti o sogni o arcobaleni) e poi dal raccontarli senza cercare proselitismi, ma comprensione e condivisione.
  3. Otto anni di me e di Orso, festeggiati in differita con una bottiglia di prosecco e una candelina. Otto anni fanno effetto, soprattutto perché a me sembra ancora che ci siamo limonati la prima volta l’altro ieri e ancora non mi posso fidare del tutto – il che è bene, perché come diceva quella santa donna di mia nonna Mary fidarsi è bene, non fidarsi è meglio. Però, ecco, in questi otto anni ho imparato tante cose su di noi ma anche molto su di me. Alcune sono belle. Altre non mi sono piaciute tanto. Ma sapere che, nonostante quelle cose non proprio encomiabili, sono degna d’amore lo stesso, è stata la cosa più bella che mi ha dato l’Orso. Oltre a svariati beni materiali, of course.
  4. La pastiera e le sfogliatelle che mi hanno portato i Nelli di ritorno dal loro viaggio a Pompei. Scusate se vi aspettavate una cosa aulica. Ma quei dolci erano pura poesia. Talmente buoni che ne ho mangiati a chilate senza neanche l’ombra di un senso di colpa. Esplorazione culturale, si chiama, e se non l’avete mai provata forse è ora di cominciare.

L’ombra nera di questo periodo è la strage di Orlando, che mi ha toccata più di tante cose orribili, e non so perché. Forse perché mi vengono in mente le serate al Portafortuna con Elenissima, e l’atmosfera di festa e allegria, le luci in riva al Po e la prima volta che ho sentito Dog Days Are Over di Florence and the Machine.

La spiegazione razionale che mi sono data, e sto per dire una cosa orribile, è che gli atti di terrorismo per me sono atti di guerra, e per quanto sia triste ho imparato fin da bambina che per la guerra si muore, anche se sei innocente, anche per caso, sfiga, destino, fatalità. Ma quello che sta dietro a quanto è successo a Orlando non era la guerra. È un atto contro la vita, in generale, incommentabile nella sua insensatezza. Non ci sono dietro soldi, politiche, interessi internazionali. Solo ignoranza e odio. E follia.
E questo pensiero è un graffio che sanguina, e che continuerà a farlo ancora per un po’.