[fem-mi-nì-sta]s.f.

Primo: non è una parolaccia. Si può dire.

Ammettere di essere femminista, se lo si pensa, è una buona cosa. Anche se siete avvenenti e depilate e non vi va che la gente pensi che sotto la parola “femminista” si celi un agglomerato di peli ribelli. Chi lo pensa, è pazzo e anacronistico.

Potete dirlo anche se siete maschi: i casi di pirilli caduti dopo aver pronunciato la tragica affermazione “Sono femminista” noti alla scienza, ad oggi, ammontano a zero.

Ma: prima di dirlo, però, è meglio che vi facciate qualche domanda. Lo sono davvero? Mi interessa esserlo? No, perché poi magari non vi interessa. Non lo siete. Le cose come stanno vi vanno benissimo. Ci sono un sacco di sintomi del bello ma non ci vivrei. Tipo: quando una donna apre bocca, vi mettete in automatico nella modalità “sopportazione” e prima ancora di aver ascoltato cosa ha detto siete già lì con una serie di obiezioni in canna. E lo fate di default, solo perché è una donna.
[NB: non sto dicendo che lo fate solo se siete uomini. Un sacco di donne lo fanno. Un sacco di donne non sono femministe. Io ancora non riesco a farmene una ragione, ma è così].

Perché, secondo me, è importante essere femministi?
Credo di averlo già detto, ma, beh, repetita iuvant. Per gli stessi motivi per cui è importante non essere razzisti, omofobi, arroganti, violenti, ottusi. Perché credere nell’inferiorità delle donne e nella supremazia del sesso forte significa nutrire una serie di stereotipi e pregiudizi che fanno male a tutti, anche ai maschi. Significa coltivare brutture e disparità.

Una volta ho avuto una discussione brutta con un signore che non conoscevo. Un signore che, mi dissero, era una persona colta, di buon carattere. È stato subito dopo i “fatti di Colonia”. Per chi non se lo ricordasse, nella notte di Capodanno del 2015 un numero cospicuo di donne che festeggiavano per i cazzi loro a Colonia è stata molestata sessualmente da un manipolo piuttosto consistente di uomini, festanti pure loro. Per molestia sessuale intendo anche che gli è stato toccato il culo, tra l’altro. Se vi è mai capitato che vi palpassero degli sconosciuti senza che lo desideraste, sapete che aggiungere un “solo” davanti a “toccato il culo” è una banalizzazione di cui non sentiamo alcun bisogno. La cosa è stata poi decontestualizzata dall’ambito a cui apparteneva perché pare che i molestatori fossero tutti richiedenti asilo e provenienti da paesi di prevalenza islamica. Grande festa alla corte dei razzisti/nazionalisti, ça va sans dire. Fra tutti gli articoli che sono andata a ripescare, questo secondo me è uno dei migliori per ricontestualizzare l’accaduto in una prospettiva più ampia.

Insomma, com’è come non è si è finito a parlare della cosa, che era successa da poco, e il signore ha commentato l’accaduto dicendo che le reazioni dei gruppi femministi erano state troppo accese per essere prese sul serio. Che, alla fine, reagire con troppa veemenza non giovava alla causa.
Ora, a parte che, che io sappia, nessun gruppo femminista è impazzito ed è andato a mettere bombe in giro e a fare ronde con randelli chiodati menando uomini a caso, il che, effettivamente, sarebbe stata una reazione controproducente e non costruttiva.
Quello a cui mi sono trovata davanti è stato un tipico caso di mansplaining: un uomo che spiega a una donna – io, nello specifico, ma se avesse potuto forse il signore avrebbe detto lo stesso con la stessa aura pacata e paternalista ad un collettivo femminista – come avrebbe dovuto reagire a qualcosa, se solo fosse abbastanza intelligente/preparata/lucida/razionale per usare il cervello, che è nella testa, ovvero quel grosso bozzo posto un metro circa sopra al culo (cit.).

Vorrei dire che la discussione è andata avanti per un po’ e che poi io l’ho schiacciato con la mia brillante dialettica, l’ho aiutato a capire che stava facendo un discorso orrendo e stereotipato in una maniera orrenda e stereotipata, e che l’ho spedito a casa con in mano una copia del libro di Chimamanda Ngozi Adichie. Ovviamente no. Mi sono incazzata come una iena, ho mantenuto la mia incazzatura nei limiti del decoro – anche perché non ero in un luogo neutro e andando avanti avrei sicuramente creato una situazione sgradevole per la terza persona presente, che nulla ne poteva – e alla fine ho glissato con un sorriso di legno e sono andata in bagno a sbattere la testa contro il muro bestemmiando in aramaico come il demone Pazuzu.

O mythos deloi oti: nonostante anni e anni di training, e un’educazione femminista, ancora il diritto di arrabbiarmi, davvero, quando un uomo mi tratta con accondiscendenza non me lo so concedere.

La femminista sempre incazzata e con fra i denti un kriss malese per evirare alla bisogna qualunque maschio che le si pari davanti è ancora uno stereotipo del quale soffro, ma in verità, dentro di me, lo so che abbiamo il diritto di essere arrabbiate, quando siamo vittime di un’ingiustizia, o di una violenza, o quando non veniamo prese sul serio. Quando ci dicono che dobbiamo protestare, sì, ma in modo consono, possibilmente con la dolcevita, con toni pacati e convincenti, perché se no, signora mia, come si fa ad ascoltarvi? Avrete ragione, ogni tanto, ma gridare con le poppe al vento non è un buon modo, su, dai, non si fa.

E invece, per qualcuna di noi, è un buon modo, e il fatto che possa non essere il mio non toglie legittimità alla cosa.

Emma Watson, che è stata massacrata per il binomio tette-femminismo non più tardi di una settimana fa, ha detto una frase intelligentissima: il femminismo non è una bacchetta con cui punire le altre donne. (Il video completo lo trovate qui). È qualcosa di molto più ampio, inclusivo, che ha mille sfaccettature – com’è ovvio che sia, perché stiamo parlando di persone – e in cui ognuna può trovare il suo posto e il suo modo, per manifestare, per agire, per supportare. Per cambiare.

Io sono allegra, frivola, incazzata, un po’ secchiona, bionda, malinconica a tratti, tonta il giusto, orgogliosa, iraconda, golosa.
Io sono femminista, e lo sono in tutti i modi in cui sono tutto il resto. Oggi, e tutti gli altri giorni dell’anno. Perché per me è davvero una cosa necessaria, e di cui andare fiera.

Bonus track: una bella panoramica di un nuovo tipo di femminismo è la newsletter di Lenny. Se masticate abbastanza l’inglese, secondo me fate bene a iscrivervi: se la sono inventata Lena Dunham e Jenni Konner, e io non smetterò mai di ringraziarle per questo.

le avventure acquatiche della giovane Incorporella

Io non sono di quelle che lo sport poi a un certo punto lo rivalutano.

Vorrei che fosse chiaro. Non sono di quelle che sì, non avevo voglia di andarci, però poi sono stata contenta. Non sono di quelle che si sentono in colpa se non muovono le chiappe per alcune ere geologiche di fila. Non sono di quelle che, non l’avrei mai detto ma mi sono appassionata. Sono irrimediabilmente, geneticamente, inesorabilmente pigra.

Lo sono da sempre. L’attività fisica mi fa cagare. Chi mi conosce lo sa e non manca di fare battute al riguardo.

L’unico motivo per cui posso piegarmi a fare sport è se me lo dice il dottore. E stavolta, ahimè, me l’ha detto. La circolazione, le caviglie stile Heidi, le vene varicose in agguato, il gomito che fa contatto col ginocchio, l’invasione degli ultracorpi, dovresti proprio fare acquagym.

Ed è così che, con un moto contrario e inverso e innaturale, ho rubato l’accappatoio di microfibra all’Orso, ho riesumato un vecchio costume Arena in cui sembro l’omonimo rollè, e lento pede mi sono incamminata verso la piscina più vicina che ho trovato.

Ho pagato, reggendo il bancomat come Muzio Scevola la mano sul braciere, l’occhio fisso all’orizzonte, il cuore pieno di nefandi presagi.

Dentro di me già pregavo: dio, fa’ che non ci siano nessuno che ha meno di settant’anni, e che la lezione sia proporzionata all’anagrafe.

Come previsto, ho subito sbagliato qualcosa: non ero mai stata in quella piscina, non sapevo dove cazzo andare, sapevo solo che ad un certo punto avrei trovato un tornello in cui strisciare la tessera, quindi ho strisciato la tessera nel primo tornello che ho trovato. C’è stato un BIIIP gigante e il tornello non s’è mosso. È uscita una signorina un po’ seccata che mi ha detto con tono glaciale “Ha bisogno?”. Io ho subito pensato che mi avessero sgamata: ecco, è lei quella che non fa un saltello dal 2003! Presto, Fitness Police, arrestatela! In realtà è solo venuto fuori che il tornello che serviva a me era al piano di sotto.

Ho trovato lo spogliatoio, dopo aver controllato venti volte che fosse quello delle femmine, per evitare di incappare in una foresta di pirilli e dare scandalo già subito.
Abbandonate le scarpe all’ingresso, insieme ad ogni speranza per un mondo migliore, ho scelto un armadietto a caso, ci ho buttato dentro tutti i miei averi, mi sono inguainata nel mio bel costumino sgambato anni 90. Poi, proprio mentre ero lì piegata cercando di togliermi i calzini per mettere le infradito, ho sentito una presenza a pochi millimetri dalla mia schiena –  ma forse, per amore di verità e vista l’incauta posizione, è meglio dire dal mio culo.

Non era Padre Pio venuto in mio soccorso con una dispensa divina, ma una signora di una certa età, con tanto di piumino e sciarpa nonostante i 67 gradi di temperatura, che mi guardava con disgusto.

“Devo arrivare a quell’armadietto. Lei finisca, io intanto aspetto”.

C’erano altri trecento armadietti liberi, ma io sono riuscita a scegliere proprio l’unico immediatamente sopra a quello desiderato dalla signora, probabilmente sofferente di DOC. Ha aspettato, tutta vestita, mentre l’uranio le si fondeva lungo i fianchi, senza spostarsi di un centimetro.

E così ho finito di cambiarmi e di mettere a posto le ultime cose con una signora mai vista prima amorevolmente attaccata alle mie terga, come un koala molto affettuoso. Il tutto in uno spogliatoio mezzo vuoto, giusto per aggiungere irrealtà alla scena.

Ho messo la cuffia (oh, poi un giorno parleremo anche dell’estrema umiliazione estetica rappresentata dalla cuffia), mi sono fatta la doccia e mi sono addentrata ciabattante nella piscina vera e propria. Ho appeso l’accappatoio in sei posti diversi prima di capire qual era effettivamente la parte giusta della piscina. Per capirlo, mi sono appostata dietro a una settantenne rassicurante e ho copiato quello che faceva lei.

Poi è iniziata la lezione.

Tre cose vorrei sottolineare di questa lezione di acquagym:

  1. La musica: avevo rimosso quali orrori dance potessero accompagnare il movimento fisico in acqua. Credo esistano delle compilation apposta. Le usano in piscina e a Guantanamo per far parlare i terroristi.
  2. Hello scoordinazione my old friend. Tutti su con la gamba destra, e io piego il gomito sinistro. Aprite le braccia verso l’esterno! E io muovo le orecchie come una lepre dei Cotswolds. Saltellare sul posto portando le ginocchia al petto, io mi produco in un triplo carpiato e mi procuro una commozione cerebrale. Oh, non ce la faccio. Deve essere un qualche gene recessivo di cui non ero a conoscenza.
  3. Il tempo non passa mai. Mai. Ho buttato un occhio all’orologio certa che fossero passati almeno venti minuti e ne erano passati cinque. CINQUE. Per tutto il tempo ho ripetuto un unico mantra: machecazzocifaccioioqui. Ciao Buddha, lo so che lo sto facendo male. Ohm.

E poi niente, è tutto finito, anche se credo che in qualche universo parallelo ci sia ancora una versione di me che lancia involontariamente pesetti di gommapiuma in testa alle vecchiette, che, per inciso, mi hanno dato merda alla grandissima, dal punto di vista motorio. Asfaltata, proprio. Ma mi hanno anche dato supporto: brava, per essere la tua prima lezione te la sei cavata, continua così, ci vediamo dopodomani?

Ma che dopodomani, signore, io una volta alla settimana e fa’ che t’nabia.

Tutto si immagina

Io amo le storie.

Leggerle, ascoltarle, raccontarle. Amo anche scriverle, è uno sporco lavoro e non viene sempre bene, ma è anche un piacere personale purissimo e indiscutibile. Ormai da tre anni mi regalo due ore alla settimana per frequentare corsi di scrittura (tipo questo e questo) che si traducono in pagine e pagine di appunti, files di word, riscritture, note in brutta grafia su quaderni sconnessi, ma soprattutto, come diceva il buon vecchio Mike: allegria. Soddisfazione, gioia, diletto, gaudio, delizia, godimento, beatitudine: un intero plateau di sinonimi a cui attingere.

Scrivere è un lavoro solitario, frequentare un corso di scrittura lo rende meno umida stanzetta e più gita del liceo. Trovi persone che ti assomigliano anche se sono diversissime da te, trovi sogni, trovi obiettivi, e – ovviamente – trovi storie.

Trovi Maestri e trovi amici.

Trovi risate, complicità, trovi quella fame di altrove che si realizza nell’essere umano appena le lasci spazio.

Sabato 11 febbraio era il giorno prima del mio compleanno e per me tutti i giorni prima e anche alcuni giorni dopo il mio compleanno valgono come festeggiamenti.

Sabato 11 febbraio c’era il corso di Elena Varvello da Zandegù e io ho preso un permesso dal lavoro e ci sono andata.

varvello_zandegu

Faccio solo foto altamente significative, io.

Elena Varvello è mesmerizzante.

Lo so che probabilmente ci sono parole più adatte a descriverla – scrittrice, insegnante, autrice, narratrice – e aggettivi spesso superlativi che non possono mancare – bravissima, preparatissima, appassionata e appassionante, pescate a caso nella gamma dell’apprezzamento e ce l’avrete.
Io, dalla prima volta che l’ho vista in classe (ormai un paio d’anni fa) e l’ho ascoltata parlare, ho pensato questo. Mesmerizzante. Il correttore di word lo segna rosso e preferirebbe forse una cosa tipo ipnotica, o suggestiva, ma che ne sa un correttore di quello che capita quando Elena Varvello si sfila gli occhiali e inizia a parlare?

La lezione a cui ho partecipato io si inserisce in un percorso più ampio di cinque lezioni (ne restano ancora uno, just in case vi stessero prudendo le mani) e il focus centrale era sui personaggi che parlano.
Il personaggio  – e il dialogo – è stato l’atomo intorno al quale Elena ha costruito un universo in poche ore, ci ha portato per mano nelle stanze della scrittura, ci ha fatti entrare per qualche attimo, ci ha tenuti sulla porta a guardare, e poi abbiamo camminato su laghi ghiacciati, abbiamo guardato il bosco dall’alto, e poi ci ha detto: scrivete.

Sul polso Elena ha tatuato “Tutto si immagina”.

Quel tatuaggio io l’ho visto fresco alcuni mesi fa, al Circolo dei Lettori, quando siamo andati ad ascoltarla presentare La vita felice, l’ultimo romanzo che ha scritto.

Ecco: quella frase, quel tatuaggio, è il riassunto migliore che potrei fare per raccontare una lezione di Elena Varvello in un tweet.
Tutto si immagina: con la sua voce, con esempi, con disegni buffi e senza mai perdere l’occasione per una battuta e una risata, abbiamo immaginato tutto dei nostri personaggi. Io ne avevo un paio in mente, i miei compagni di corso anche, e chissà lei a chi pensava.

Di verbo in verbo, abbiamo iniziato ad ascoltarli.
I personaggi parlano, non chiacchierano: e abbiamo imparato che il dialogo più riuscito si esprime nel non detto, nel silenzio.

Sembrerà mica facile, una cosa così, quando poi sei a casa e il cursore lampeggia e tu non sai che minchia si dicono ‘sti due mentecatti che stanno lì seduti al tavolino di un bar ed è tutto uno spazio vuoto da riempire e tu non riesci a decidere, se attingere ai ricordi, alla realtà, alla preghiera, o se spegnere tutto e andare a guardarti una puntata nuova di Girls.

Ed è lì che ti viene in mente: tutto si immagina.
Quello che ti resta, dopo un corso di scrittura fatto bene, sono gli strumenti. Gli scalpelli per martellare quel blocco bianco di marmo che hai nel cervello al posto dei neuroni, per creare spiragli da cui possano uscire le parole, e i due mentecatti di cui sopra comincino a respirare e a esprimersi in un modo che – speriamo – non assomiglierà a una puntata della Telenovela Piemontese.

Quando è finito il corso siamo rimaste ancora un po’ lì a fare salotto e a farci promesse: scrivere, soprattutto, è la promessa più impegnativa, e l’unica che conta.
Poi, visto che io sono io, mi è venuto un po’ di sagrìn, perché era già finito tutto, volato in fretta, avrei voluto ricominciare la giornata da capo, anche perché io dalla Zandecasa vorrei non andarmene mai, stare lì con le persone e Sandra e Raimondo e il caffè e la torta di Sara e i cuscini a punto croce con su scritto Tarapia Tapioco.

Allora ho capito che dovevo andare a casa e scrivere.

Perché il modo migliore per far passare il sagrìn, è sempre raccontarsi una storia.

[Già che ci sono: qualche link bonus che magari vi interessa.
La pagina Facebook di Elena Varvello.
Il prossimo corso che terrà da Zandegù.
Il sito del Maestro primigenio e reverendissimo, quello che campeggia come un santino nei miei quaderni squinternati e che cito a sproposito ogni volta che parlo di scrittura.
Quello che pensa Valentina e quello che pensa Francesca: due riflessioni super azzeccate sui corsi di scrittura].

The rain was never cold when I was young

Cose che documentano la vecchiaia ben più di qualsiasi numero scritto su un pezzo di carta con la tua faccia sopra.

Sanremo. Proprio guardare Sanremo, la cosa in sé.
Madonna i giovani che brutte canzoni che fanno.
Ma che cazzo di capelli ha?
La caviglia nuda però dai. Io comunque anche quando li vedo per strada con quelle caviglie scoperte, ma non hanno freddo?
Eh però quelle belle canzoni degli anni 80 che ti restavano in testa per anni. I classiconi. Non le scrivono mica più quelle canzoni lì.
Ma chi cazzo è Fabrizio Moro?
Ma ha detto merda? No dai, sul palco dell’Ariston merda no però.
Alza un po’ che non sento.
Abbassa un attimo che mi sta assordando.
Valeria Mazza comunque si conserva bene. Sarà che la scongelano una volta all’anno per promuovere la sua clinica de la velessa.
Senza Vessicchio e Coconuda però non è veramente Sanremo:
Crozza io me lo ricordo con i Broncovitz ed era tutto un’altra cosa. E comunque non fa ridere.
Maduuuu com’è invecchiata/o!
Alcuni fanno anche un po’ tenerezza, dai.
Le coriste dove le hanno mese quest’anno? In una buca? Fateci vedere le coriste, cazzo!
Certo che tu studi il violino al conservatorio per anni e finisci a fare le basi per Clementino, cioè, a volte la vita  non è che proprio ti premia.
In che senso fine prima parte? Ma hai visto che ore sono?

Ma voi state ascoltando? Ah no, io ho smesso dieci minuti fa.

Cos’è questo, il momento della gente normale o quello del tema sociale?
Speriamo che non usino i bambini. No il cane no poverino però, dai. Adesso vedrai che fa la cacca sul palco.
Ma perché Carlo Conti è vestito come Willy Wonka? Però è un po’ meno marrone del solito. Cioè, se lo vedi da solo, poi di fianco agli altri si vede che comunque è color mogano.
Questa piace ai giovani.
Questa piace a mia mamma.
Questa premio della critica.
Questa podio, non so in che posizione ma comunque podio.
Questa la passeranno un casino al supermercato.
Questa va bene per i centri estivi.
Questa fa veramente ma veramente cagare.
Questa è bellissima. Ma la canzone? No, lei.

Tiziano Ferro sposami, sii il padre dei miei figli, poi se vuoi lasciami per un altro, ma rimaniamo amici.
Lui sì che è un artista completo.
Anche un po’ il figlio di Massimo Ranieri, secondo me, guardalo bene.

Post scritto a due mani, ma attingendo ad almeno sette teste. Adesso vado, che comincia la seconda serata.

Giuro che Tiziano Ferro non è stato molestato per la stesura di questo post. Purtroppo.

Febbraio, non c’è niente che fa rima con febbraio.

Febbraio è il mese del compleanno e delle bugie, quelle che ci siamo dette quando abbiamo giurato che non avremmo mangiato bugie tutto il mese ma solo nei giorni intorno al dodici, per convenienza.

Vado a fare la visita oculistica, mi sembra di vederci meno dall’occhio destro, quello che ha sempre dato problemi, il figlio difficile, cammino per corso Tassoni con gli Ash, e mi dico, mah, speriamo che invece sia tutto a posto. E più spero più mi convinco che invece no, buuuh, terremoto e tragedia e Ray Charles.

Febbraio è il mese che vuoi festeggiare e che non ne puoi più dell’inverno, ma è troppo presto, bisogna arrivare almeno fino a marzo e avere comunque i terroristi del meteo che appena levi uno strato di lana ti dicono, ah ma non illudiamoci che tanto fra un po’ di giorni di nuovo nevica. Ma come nevica, ma cazzo, ma sei sicuro? Ah sì, l’han detto, eh.

E poi a volte nevica a marzo, e a volte invece no, perché ammettiamolo una buona cazzo di volta che la meteorologia è la scienza di sto par de palle, che l’unica previsione quasi certa è quella che puoi fare alzandoti al mattino e guardando fuori dalla finestra, perché per probabilità statistica c’hai la stessa ragione del Colonnello Bernacca che ti vive accanto con ilmeteopuntoit nella barra dei preferiti che neanche pornhub. Lunghi dibattiti che seguono sempre il solito schema:
Si avvera la previsione=> vedi che ci azzeccano!
Piogge improvvise=> beh ma non è che non possano sbagliare ogni tanto eh.
E allora ci ho ragione io, scusaaaaa. O suca, che a volte anziché scrivere scusa scrivi suca e hai sempre il dubbio che sia il subconscio che si manifesta.

L’oculista è la stessa da quando eri bambina e la adori perché affronta i tuoi terrori di cecità con calma e compostezza e un sorriso che non è mai invecchiato, e guardi a destra in basso e leggi la terza riga e metti il collirio che dilata la pupilla ed è tutto così normale che bom, ti senti molto cretina per i pensieri di morte e distruzione sotto il cielo plumbeo che sembrava fatto apposta per gli oscuri presagi, quando potevi tranquillamente ascoltare gli Ash e contare le crepe nel marciapiede senza un pensiero al mondo.

Febbraio è il mese corto e in salita di quando vorresti che tutti ti volessero più bene e invece magari inciampi in un merdone e dici occazzo non me l’aspettavo, non l’ho proprio visto, vedi, te l’ho detto, aridaje con Ray Charles.

Dice che non sei peggiorata, che forse ti sembra di vederci meno perché sei solo un po’ stanca, perché sforzi un po’ gli occhi (ciao, Netflix), ma è tutto a posto, tutto nella norma, esci e mandi a Miss Ali la foto di un falchetto per aggiornarla sull’affaire, e mentre ravani sul telefono ti rendi conto che cazzo non ci vedi una sega, ma sono le gocce, cretina, ti ha messo le gocce.

Febbraio è solo che sei un po’ stanca e non vedi le cose con chiarezza, ti ha messo le gocce e da lontano è meglio che da vicino, tener duro aspettando la primavera, e se nevica ci copriremo e ci terremo caldi come sappiamo, in ogni caso ne avremo la certezza solo guardando fuori dalla finestra, un mattino all’improvviso o una sera fuori da una pizzeria dopo aver detto scemenze, febbraio non fa rima con niente a prima vista ma in realtà non è vero, fa rima con granaio e puttanaio e gennaio. Non sarà il massimo dell’originalità, ma comunque.

 

“Tu vecchia mutanda, tu, souvenir di gioventù”.

Oggi mentre piegavo la biancheria – ebbene sì, anche io faccio queste cose utili ogni tanto – ho notato, forse per la prima volta, una disparità notevole nella misura delle mie mutande.

Premetto che per me le mutande sono un po’ una droga, non resisto, le compro a pacchi purché siano di cotone, colorate, possibilmente con qualche fantasia scema più adatta a una quarta elementare che a un’età anagrafica di appartenenza. E poi, diciamolo: le mutande servono sempre. Non è che puoi frenare l’impulso dicendo “dai, ma poi quando le metto?“. La mutanda è un evergreen dello shopping.

La mutanda è il souvenir ideale, il pensierino azzeccato, occupa poco spazio in valigia, la mutanda è universale.

Oggi a mia teoria dell’universalità della mutanda è stata messa a dura prova dai centimetri di differenza fra un capo comprato da Uniqlo a Tokyo e uno da Victoria’s Secret a Santa Cruz. La mutanda nipponica è una L, la mutanda americana è una M, eppure la prima è decisamente più piccola rispetto alla seconda.

(Le prove fotografiche sono sul mio profilo Instagram, ché il popolo deve sapere).

Del resto è la scoperta dell’acqua calda, no? Paese che vai, taglie che trovi. È tutto proporzionato all’utenza media, e sicuramente non ci va una laurea in antropologia per notare che la chiappa asiatica è mediamente molto più contenuta della chiappa occidentale.

(Qui è dove potrei aggiungere che, seguendo questo ragionamento, l’Orso a Tokyo ha comprato sulla fiducia mutande XL nelle quali potevano starci comodamente sei lottatori di sumo che ballavano il cancan, ma farei crollare tutta la teoria e quindi fingiamo che non sia mai accaduto).

E ho pensato a quante volte, invece, in ben più giovine età, la taglia è stata un traguardo ambito. Non solo mio, ma di tante fanciulle di mia conoscenza. Sopra la 46, le fondamenta scricchiolavano. Sotto la 42, si veniva portate in trionfo dalla folla.

Poi sono arrivate le catene di fast fashion e le certezze sono crollate.

Abbiamo scoperto gli algoritmi per calcolare quale taglia approssimativamente poteva essere la nostra: prendi il cartellino, cerca la dicitura EUR, non confonderti con MEX mi raccomando, aggiungi quattro, dividi per due, sottrai il numero che hai pensato, moltiplicalo per la data di nascita di tua mamma, fai una rapida valutazione appoggiandotelo addosso, entra nel camerino, dì sette Ave Maria e spera per il meglio.

Io nel corso degli anni penso di aver provato – e acquistato – capi di qualsiasi taglia. Ho provato XXL nelle quali sembravo la noce di prosciutto al pepe dell’autogrill, ho visto jeans taglia 34 esplodere sulle mie cosce come navi in fiamme al largo dei bastioni di Orione, ho navigato in placidi mari di flanella taglia S. E tutti questi momenti andranno persi come lacrime tra i gatti di polvere di un camerino di Pull&Bear.

Ad oggi, se una commessa volenterosa mi chiede “Che taglia ti porto?” vado nel panico. In media, rispondo “Fai tu“. Apro il cappotto, svelo le mie dimensioni e mi affido alla professionalità di chi ho davanti.

No so esattamente che taglia porto, ma ho memorizzato una serie di numeri tipo sequenza di Fibonacci che corrispondono, circa,  alle taglie che di solito mi vanno di una determinata marca o di alcune catene d’abbigliamento.

Va da sé che sono sempre io, eh. Non è che mi espando e mi restringo come Carletto il principe dei mostri.

E ho realizzato, ancora una volta, che cosa direi alla me stessa sedicenne che cercava di strizzarsi in una 44 quando chiaramente avrebbe dovuto accomodarsi in una 46: piantala, cretina.

La profezia dice che un giorno avrai un cassetto pieno di mutande ordinatamente divise per colore, e nessuna sarà della stessa taglia dell’altra. Ognuna verrà da un posto del mondo diverso e quando le metterai non penserai a quello che c’è scritto sull’etichetta, che peraltro avrai già tagliato perché ti gratta sul sedere. Ti ricorderai dov’eri quando le hai comprate, con chi, cosa stavi facendo e che tempo c’era.

E in tutto questo la cosa che conterà di meno saranno le effettive dimensioni del tuo culo.

 

Zazuera

Avevo un solo buon proposito per il 2016 (lavare la macchina) e sono riuscita a non mantenerlo.

Così mi porto avanti per la lista di quest’anno.

Tra l’altro se non ricordo male era un proposito copiato da lei, quindi originalità a pacchi.

Del 2016 mi porto dietro un brufolo gigante sul mento, che è simbolo di prosperità, giovinezza e abusi in zona fegato, un mix unico e inimitabile di tachipirina e prosecco, per la donna che non deve chiedere mai.

È tempo di bilanci e buone idee, di progettazioni ardite e risalite, io sono poco portata per tutto ciò ma una cosa devo dirla. Nonostante le lamentele e il cattivo carattere, una certa propensione al dramma e una serie di pessime idee, la vita, in generale, con me è sempre stata generosa. Anche nel buio e nel dolore, dietro di me ci sono più giorni di sole e notti di stelle che non coni d’ombra (o di vergogna).

Per citare Igor, il destino è quel che è, ogni tanto verrebbe voglia di forzarlo verso la meritocrazia, ma spesso una buona botta di culo è quello che ti salva veramente.

Conviene lavorarci sopra, circondarsi di persone belle e restando aperta e ricettiva al buono che c’è nel mondo anche, e soprattutto, quando invece la sola parola che ti lampeggia nel cervello è “Merda!”.

Non so neanche se sia un buon proposito, forse più una tecnica di sopravvivenza di base.

Per volersi bene, e continuare a voler bene al resto che sta intorno.

Che possiate sentirvi prezios* sempre, che possiate sapervi invincibili, che sappiate perdonarvi e perdonare.

E che non diventiate mai troppo seri, troppo snob o troppo stanchi per un trenino improvvisato cantando A e i o u ipsilòn.

Io, il brufolo e la renna porgiamo i nostri più distinti saluti.

Transpotting e l’amarcord.

La prima volta che ho visto Trainspotting avevo 16 anni. Siamo usciti da quel cinema che stavamo ancora trattenendo il fiato.

Noi che eravamo giuovini e alternativi negli anni 90 avevamo un tropismo per le storie di droga molto più che per la droga in sé – soprattutto se si parla di eroina: avevamo ancora negli occhi gli sfracelli marcescenti dei tossici anni 80, le catenine scippate, le facce  pustolose, sanpatrignano e tutta la cumpa.

Trainspotting per me è stato subito culto.

Ho amato di puro istinto Renton e non solo per la ghigna immortale di Ewan Mc Gregor, ho adorato Sick Boy più di tutti senza un perché, Tommy mi ha spezzato il cuore ben prima di Grey’s Anatomy, e come non adorare quel cuore di panna di Spud? Menzione speciale a parte, il Generalissimo Franco Begbie, terrore dei sette mari. Un pazzo se mai ce n’è stato uno, e, tra l’altro, l’unico non tossico di tutta la banda.

Poi è venuto il libro, che si è diramato in mille direzioni anche diverse, tutto da leggere e da rileggere, storie di altri personaggi, altre prospettive, altre voci.

E com’è possibile al di là dell’inevitabile epica, che una sedicenne italiana qualunque, che s’è fumata mezza canna in vita sue a dire tanto, potesse voler passare pomeriggi interi in compagnia dei peggiori tossici delle coree di Edimburgo?

Era tutto lì, all’inizio del film, nel famoso discorso.

Scegliete la vita; scegliete un lavoro; scegliete una carriera; scegliete la famiglia; scegliete un maxitelevisore del cazzo; scegliete lavatrici, macchine, lettori CD e apriscatole elettrici. Scegliete la buona salute, il colesterolo basso e la polizza vita; scegliete un mutuo a interessi fissi; scegliete una prima casa; scegliete gli amici; scegliete una moda casual e le valigie in tinta; scegliete un salotto di tre pezzi a rate e ricopritelo con una stoffa del cazzo; scegliete il fai da te e chiedetevi chi cacchio siete la domenica mattina; scegliete di sedervi sul divano a spappolarvi il cervello e lo spirito con i quiz mentre vi ingozzate di schifezze da mangiare. Alla fine scegliete di marcire, di tirare le cuoia in uno squallido ospizio ridotti a motivo di imbarazzo per gli stronzetti viziati ed egoisti che avete figliato per rimpiazzarvi; scegliete un futuro; scegliete la vita. Ma perché dovrei fare una cosa così?

Ecco, a sedici anni forse mi sentivo troppo figa per crescere. Troppo diversa, ribelle, creativa, io no, io mai il mutuo a tasso fisso e le bollette e la spesa nei centri commerciali alla domenica. Non avevo bisogno di una dipendenza, per sentirmi così, mi bastava pensare che non avrei mai accettato compromessi.

Non è andata esattamente così, perché forse, per fortuna, tutti siamo destinati un po’ a tradirci, ma la cosa che mi sembra importante è non dimenticare come si fa ad avere quello slancio, quel rifiuto, anche a 36 anni sul divano con la tisana allo zenzero. Assume contorni diversi, ma il nocciolo è non dimenticarci come eravamo.

Recentemente ho ripreso in mano Skagboys, che è del 2006. È uno dei libri che mi ero messa da parte quando ho chiuso Librarsi, nella famosa pila – di – fianco – al – letto, quella che cresce sempre, non importa quanto tempo passi a leggere. Skagboys l’ho letto in contemporanea a Pastorale Americana di Roth e Generations of love di Matteo B. Bianchi.Poi uno si chiede se ho dei disturbi di personalità.

Di questa lettura sincrona, Irvine Welsh si è un po’ imposto sugli altri due perché si è rivelato quello di cui avevo assolutamente bisogno senza saperlo. Irvine Welsh mi ha salvato la salute mentale nelle ultime settimane perché, leggendolo, mi ha ricordato di quel germe anarchico, di quello svirgolamento dal seminato che è insisto nell’essere umano, anche dietro alle nostre foto perfette, dietro ai toni giusti, alle frasi cesellate e alla sfiancante corsa per sedere sempre dalla parte della ragione.

Mi ha ricordato che esiste una poesia non istituzionale, una bellezza nonostante, che le cinquanta sfumature di grigio che contano per me sono quelle del cielo di Leith, che pagina dopo pagina resta identico, immutabile, finché ad un tratto si squarcia e fa passare il sole.

Spesso ai corsi di narrativa che ho seguito in questi anni mi sono trovata a pensare “Irvine Welsh lo fa!”, ogni volta che c’era un dilemma chessò, sull’uso di più narratori differenti. Sì, Irvine Welsh lo fa e lo fa da dio. Tutti dovremmo leggere Irvine Welsh ma è pur vero che non tutti hanno voglia di leggere  di hooligans, tossici, puttane e alcoolizzati, quindi va bene anche così.

Allo stesso tempo, mi sembra riduttivo confinarlo nei sui racconti più crudi, perché in Skagboys ci sono cose come:

Renton la guarda farsi piccola per l’umiliazione mentre esce dalla porta oscillante del bar, e le sue spalle esili e bianche sono la cosa più nuda che abbia mai visto, come se la notte fosse l’unico scialle di cui potesse mai avere bisogno.

Skagboys racconta quello che succede prima di Trainspotting. Come ci arrivano. Forse anche il perché. E c’è quel senso dell’inevitabile, che ricorda le atmosfere della tragedia greca, in cui tutto, scelta dopo scelta, porta verso un fato ineluttabile. Tutto è costruito – forse prima ancora che nascessi – per portarti lì.

welsh

Mi mancavano, i ragazzi della skag, in quel modo in cui a volte mi mancano i sedici anni e le certezze incrollabili. E la capacità di cadere a pezzi, di rimettersi insieme, di essere elastica e invincibile e di pensare di avere sempre ragione, senza peraltro avercela quasi mai.

le foto brutte

Un paio di settimane fa, a pranzo dai Nelli, è comparsa una vecchia scatola da scarpe piena di foto.

Erano le foto scartate, quelle che non hanno mai trovato posto negli album. Le foto brutte, insomma.

È doverosa una premessa: col tempo mi sono aggiustata, ma dai 9 ai 18 anni sono stata una cosa inguardabile. Non manco mai di ringraziare le divinità olimpiche che mi hanno consentito di trascorrere l’adolescenza senza il trauma del social network, foto orrende sparse a profusione tra i miei contatti, tag malefici che mi avrebbero accompagnata dritta dritta in uno sgabuzzino buio, o con un sacco in testa tipo Charlie Brown, direttamente sul lettino dell’analista e del chirurgo plastico. Ero un cesso e ce lo ricordiamo tutti, ma facciamo finta che io sia sempre stata normale.

La moda certo non aiutava, e quando nelle vetrine rivedo i jeans a sacco che hanno martoriato i culi della mia generazione sento un brivido dentro, ma la moda gira, bellezza, sono tutti cazzi a venire delle sedicenni di oggi, e non è più una mia battaglia. Pensateci due volte prima di comprare un body a righe orizzontali, è tutto quello che mi sento di dirvi.

Le foto brutte che abbiamo riguardato, però, non erano solo brutte. Erano belle. Erano spettinate. Erano tenere.

C’era una certa giovinezza, nell’aria, un candore, sorrisi spontanei e gesti tipici immortalati senza volere.

Alcuni, con i dovuti aggiustamenti, sono fra le foto migliori delle persone ritratte. In una mamma Scopella eccezionalmente ride nel vento di Londra, e basterebbe tagliare un certo monolite in giacca di jeans (io) per avere un’immagine memorabile. Perché mia mamma odia farsi fotografare, e se non la becchi di soppiatto ha sempre la stessa faccia da colonscopia, pure nelle foto del matrimonio.

E così rivedi la nonna Romana a occhi chiusi nel mezzo di una risata, la mano sollevata in un gesto suo tipico, con mio papà alle sue spalle piuttosto simile ad un orango mentre dice qualche cazzata impronunciabile.
I miei cugini, padri di famiglia pettinatissimi e onorabili, sbracati sul divano da piccoli che fanno smorfie con in mano una scimmia di peluche che dà adito a somiglianze.
Cugina Vitto vestita a festa intorno ai due anni, con l’aria scazzata e un dito nel naso in segno di protesta.
Papà Nello che fa il  cretino millantando pose sexy sulla spiaggia di Lerici, uscito dritto da una puntata di Narcos, col baffo latino e gli zoccoli da tirolese, che dio solo sa perché erano indumento di punta delle sue estati.
La nonna Mary elegantissima come sempre, a Natale, che ascolta i discorsi con aria compunta ma beccata di sguincio con uno scoscio che neanche Alba Parietti.
Zio Bruno palesemente ubriaco, in braghette, mezzo steso sul tavolo, che forse canta qualcosa del repertorio melodico napoletano a zia Lucia, la quale a sua volta sfoggia una permanente oltraggiosa e un’aria scandalizzata che le riesce male, perché si vede che le scappa da ridere.
Mamma Scopella che fa una faccia identica alla mia – e già questo colpisce in pieno, perché la leggenda vuole che io sia uguale a mio papà, e invece. Quella faccia lì che ci viene quando siamo costrette all’ascolto di una supercazzola – fatta da anonimi, nel caso della foto –  e la dicitura “che palle” che esce da tutti i pori.

Una serie di scatti inspiegabili in cui la sottoscritta, in costume tipico montano, con il favore delle tenebre, danza una giga alla festa del paese. O meglio: tutti intorno a me cambiano posizione, e io resto ferma sperando di confondermi con un pilastro di sostegno.

E lì mi è venuto da pensare con nostalgia a quando ci permettevamo di avere foto brutte, ma mica perché eravamo migliori e facevamo le cose con un’etica superiore: solo perché non sapevamo come sarebbero venute, e avevamo sempre la speranza recondita di essere carini. Poi, una volta stampate, non è che le buttavi: un po’ perché costavano, un po’ perché strappare le foto era il colmo dell’oltraggio, riservato solo agli assassini di gattini e ai traditori della patria. Strappare le foto portava male ai soggetti ritratti, perlomeno a casa mia, che è sempre stato uno strano consesso di agnostici pronti a credere a pratiche spiritiste mixate con superstizioni partenopee e antiche leggende indiane.

Mi piace pensare che anche in futuro di noi resterà altro oltre ai filtri di Instagram, immagini che non cancelli perché ti ci affezioni, in cui sei un po’ Sora Lella ma non ti vergogni a ridere anche di te, nel privato della tua famiglia, di chi ti vuole bene uguale al mattino appena sveglia o alle tre di notte con la faccia da Dracula, di chi ti perdona i look discutibili e i tagli di capelli da ananas, gli occhiali a fondazzo di bottiglia e le espressioni un po’ paleolitiche che ti portano a chiederti: ma sarò stata normale?

Che poi sì, non farà bene all’autostima vedermi ritratta ciclicamente, nel corso degli anni, a chiappa al vento con i buchi di cellulite e il doppio mento e l’espressione assente mentre leggo a gambe incrociate su divani, sdraio, letti e prati: ma sono proprio io, in quelle foto brutte, così inequivocabilmente me stessa che pazienza se faccio cagare e sembro Jabba the hat.

A volte essere stati bene è forse meglio che essere stati belli. O almeno: a volte è più divertente, e toccante, da riguardare insieme.

Ti ritrovi con un cuore di paglia

A voi che vi piace l’autunno, che volete che vi dica.

Lasciatemi sola con il mio dolore mentre mi aggrappo alle tende.

Giorni più corti, freddi, umidi, bui.

La nostalgia sempre in agguato, unica consolazione i canini di instagram.

A proposito di canini, quello che abbiamo notato io e l’Orso in California è che lì dove tutte le case hanno il giardini e potrebbero scorrazzare i labrador, la maggior parte della gente ha cani grossi come un’arachide. Perlopiù orribili, sfigati, che sembrano rimasti chiusi in una porta da piccoli. Tenerissimi nelle loro pettorine custom, ma racchi da far pietà. Di solito in numero pari, a multipli di due, seminano bruttezza e cuori spezzati sulle strade assolate. Quando a fare il paio è un cane di razza, di solito è vecchissimo, in anni umani ne ha almeno 80, col nasone bianco e le zampe artritiche, l’occhione buono velato dalla cataratta. A me questa cosa è piaciuta molto, perché dei pitbull giovani che infestano le strade italiane ho una paura fottuta e spesso preferisco rischiare di essere investita da un camion piuttosto che annusata sul marciapiede.

C’ho nostalgia della California, e lo so che non vale, perché ci sono stata tre settimane a fare la turista pirla con le orecchie di Topolino e l’accento piemontese, però ce l’ho lo stesso. Ho nostalgia anche di Londra, di Tokyo e di Riccione e di Torino in primavera quando inizi a uscire senza calze e a fare aperitivo nei dehor, e stendi fuori le lenzuola senza averle umide per una settimana in mezzo al corridoio, che poi quando le ritiri praticamente sono già sporche di nuovo e sanno del broccolo bollito dell’altroieri.

Ho nostalgia di Danny Duquette e Izzie Stevens e dei piantoni su Chasing Cars, soprattutto ho nostalgia di Cristina Yang e anche se so che non tornerà, un po’ non ho smesso di crederci.

Ho nostalgia di quando mi ammalavo e mamma Scopella tornava a casa con il prosciutto cotto e l’Estathe al limone, mentre Nello metteva su una catena di montaggio di pezzuoline bagnate sulla fronte che Marchionne scansati.

Ho nostalgia di quando non c’erano i cellulari e avevo una cosa di meno di cui avere l’ansia di averla lasciata sul tavolo della pizzeria, perché forse a vedermi così non si direbbe, ma io ho continuamente l’ansia di seminare le cose in giro – perché mi conosco, e più invecchio più la lista cresce e la memoria perde colpi, ieri mattina stavo per arrivare in ritardo alla Gang perché ero chiusa in casa e avevo appoggiato le chiavi nello sgabuzzino – dio solo sa perché – e non le trovavo più e ovviamente senza aprire la porta non potevo uscire, e oltre all’ovvia ansia di essere chiusa in casa c’era pure l’ansia della figura da coglionazza che avrei fatto con l’Orso e col Capo. Che però mi conoscono e sanno che sono proprio coglionazza così, senza additivi.

D’autunno io non ho voglia di niente che non sia avvolgermi come Dracula in un sudario di pile, ciucciare un carboidrato a caso e aspettare che le giornate si allunghino di nuovo.

L’anno prossimo voi autunnisti fatemi un favore e l’autunno piacetevelo a casa vostra.